Siamo partiti da Kerekegyhaza (Ungheria) avendo come meta la Serbia. Al confine di Szegedin in una coda senza fine di macchine e disperazione aspettiamo il permesso di passare dall’altra parte. Vogliamo seguire il Danubio che, a differenza nostra, ha il vantaggio di non dover rispettare le regole dei giochi politici creati dagli uomini, che, ancora oggi, non sono in grado di imparare dalla saggezza dei giganti della natura.

Dura più di tre ore, in media, il bisogno dei nuovi stati membri dell’Unione Europea di mostrarsi buoni custodi del confine della Fortezza Europa. Ma c’è anche una ragione economica: chi ha un visto turistico di tre mesi e si è fermato qualche giorno in più oltre la data limite, paga una multa minima di 400 euro. Chi invece si è fermato di più corre il rischio di non poter più rientrare in Ungheria, almeno per i prossimi cinque anni.

Viene così contrastato il plurisecolare tentativo dell’Est di conquistare l’Ovest. Lo sanno bene tutti.. Proprio in questi mesi in Ungheria i fedeli protettori dell’idea della purezza della razza ungherese si sono organizzati in polizie private per seminare il terrore nei villaggi Rom ungheresi. Il Governo ungherese, di destra ma moderato tanto che presiede l’Unione Europea in questi sei mesi, ha contrastato il loro fervore patriottico e vietato il loro “lavoro”. Meno male…

Cavolo capuccio di FutogPassata finalmente la frontiera siamo sulla strada per Novi Sad. A pochi chilometri da Novi Sad, a Futog, ci aspettano i maghi del Futoski kupus (Cavolo cappuccio di Futog). Sono un’associazione di circa 150 produttori che si sono uniti con lo scopo di proteggere la loro verdura preferita e promuovere la zona di Futog. Ad attenderci ci sono una decina di piatti diversi a base di cavolo. I nostri padroni di casa ci spiegano subito che un kupus (cavolo) per essere futoski deve essere coltivato a Futog e in nessun altro posto. Non solo a Futog c’è il terreno umido tipico delle rive danubiane ma a differenza da altri posti lungo il Danubio l’intero paese si trova ad un livello ottimale sopra il mare, un po di più o un po di meno e sarebbe già un suolo non favorevole alla produzione di questo tipo di kupus. Solo qui a Futog cresce un cavolo con così tante foglie, solo qui a Futog il Kupus ha un percentuale ottimale di acqua, vitamine, minerali e acidi. Cavolo capuccio di Futog

Proviamo ad ascoltare con attenzione mentre sul tavolo ci scambiamo le insalate di kupus, le pita, le sarma e la pasta con kupus. In tutti questi piatti il kupus non domina ma decide il carattere finale del gusto. Ci serviva proprio questo tipo di terapia per combattere la disidratazione che avevamo sofferto sul confine ungherese. Comunque non siamo né i primi né gli ultimi salvati dal Futoski kupus. Nel 1796 i comuni di Vukovar e Irig ordinano da Futog dieci milla cavoli per sanare gli effetti negativi della pestilenza che in quegli anni aveva colpito tutta la regione dello Srem. Lo mangiarono volentieri anche i soldati dell’impero austro-ungarico, come ci ricordano orgogliosamente i nostri padroni di casa. In quel tempo Futog era un crocevia di commercio, aveva un mercato che nel passato si poteva paragonare solo a quello di Lipsia in Germania. Hanno grandi progetti i membri dell’associazione di Futoski kupus, che nel frattempo è diventato anche un presidio di Slow Food.

Lentamente, molto lentamente è giunta anche la fine del nostro pranzo. Decidiamo così di andare sul Danubio, il nostro migliore compagno di viaggio. Per fare il bagno è tardi e lungo il percorso incontriamo paesani che con i loro trattori portano le verdure appena raccolte per lavarle nel fiume. In una delle campagne vicino al fiume, ci spiegano i nostri ospiti, qualche anno fa c’era una grande attività di pescicoltura. Un giorno il Danubio ha voluto protestare contro questa imitazione della natura, è sgorgato e si è preso tutta la produzione pescicola. Il proprietario non si è ancora recuperato da questo attacco e oggi ci sono solo alcune piccole dighe nel prato che ricordano questa sua avventura economica fallita. Un’ora più tardi riusciamo a resistere alla musica invitante che si sente da una barca-ristorante sul fiume e alle insistenze dei nostri ospiti per fermarci ancora per un grappetta. Se non è grappa di kupus, mi era venuto in mente, non ci fermiamo. Ma conoscendo la nostra debolezza per gusti ed esperienze nuove sto zitto e cerco un’altra scusa per andare. Siamo già in ritardo per la nostra prossima destinazione… Una scusa non tanto convincente nei Balcani ma che questa volta ha funzionato.

Danubio

Foto di Camilla de Maffei

La sera arriviamo alla riserva naturale di Zasavica dove avevamo prenotato delle stanze per dormire. Camminando nel buio verso la casa-torre di legno dove alloggeremo sentiamo odori di animali, non sappiamo bene distinguere quali. Ci addormentiamo con il gracchiare delle rane, quelle che hanno battuto il vanitoso re Davide nel pregare Jehova. La mattina ci svegliano le rondini che sotto la grondaia, a pochi centimetri dalle nostre finestre, hanno nidificato. Oltre agli uccelli e ad altri numerosi piccoli animali nella riserva si allevano maiali, cavalli, mucche, pecore e asini. In una fattoria accanto si produce il latte di asino, il più prezioso latte che si può comprare in Serbia. Qui a Zasavica, per la prima volta dopo tanti anni, vedo la tipica mucca bosniaca chiamata Buša che in Bosnia è ormai in via d’estinzione, sostituita dalle Simenthal importate che danno sei volte più latte. Nel pomeriggio lasciamo Zasavica, che non è proprio sul Danubio ma è “dietro la Sava”, il suo grande affluente. Prima di partire mi tolgo una curiosità: ci sono due villaggi Zasavica I e Zasavica II e la riserva si trova nel primo. Un’informazione apparentemente non tanto strana a me, un balcanico abituato alle effusioni e alla creatività topografica di questi territori, ma che mi sembra interessantissima. Troppo tardi mi viene in mente l’idea di consigliare agli abitanti di Zasavica II di prendersi il nome del villaggio Lazarevo che i suoi abitanti non vogliono più, orgogliosi di aver tenuto proprio loro nella loro riserva per gli ultimi vent’anni l’asino più grande dei Balcani. Siamo già sulla strada per Čelarevo.

Danubio 2

Foto di Camilla de Maffei

A Čelarevo si parla con accento bosniaco. Niente di strano, quasi tutti gli abitanti sono di origine bosniaca, arrivati nella zona dopo la II Guerra Mondiale per abitare la case svuotate delle famiglie tedesche che fondarono un villaggio di nome Čib. I nomi sono importanti e Čib diventò presto Čelaravo, per onorare l’eroe della II Guerra Mondiale Zdravko Čelar. Dopo l’ultima guerra civile nei Balcani, quando la vergogna sul passato comunista ha invaso i Balcani, Čelarevo, a differenza da Titograd, Titovo Užice, Kardeljevo, Prozor e tanti altri ha preservato il suo vecchio/nuovo nome. Ma solo per il fatto che il vecchio nome era tedesco, e i tedeschi sono, nella memoria collettiva di questa parte dei Balcani, ancora oggi peggio dei partigiani.

A Čelarevo andiamo solamente per goderci il Danubio. Un amico che ho conosciuto qualche anno prima partecipando ad una colonia artistica sulle riva del Danubio ci porta in una piccola crociera mentre sopra di noi le nuvole minacciano pioggia. In lontananza si vede la Fruška Gora, un monte che ospita una quindicina di bellissimi monasteri ortodossi e coltivazioni di vite. In uno di questi monasteri trovò rifugio per un paio di anni il poeta romantico serbo Laza Kostic. Il cinquantenne poeta fuggiva dall’amore per la diciannovenne figlia del suo miglior amico Laza Dundjerski, un aristocratico la cui villa si trova ancora oggi abbandonata nel centro di Čelarevo.

Danubio 3

Foto di Camilla de Maffei

Il capitano e le sue due figlie conducono la nostra barca verso l’altra riva del Danubio. Incoraggiati dalla rakija che ci offre il capitano facciamo il bagno nonostante il cielo minaccioso. Velocemente capiamo che non c’è nulla da temere. Il Danubio sotto la pioggia è ancora più bello e orgoglioso. L’unione dell’acqua caduta dal cielo e di quella del fiume mi fa finalmente capire che qui è il posto dove il Danubio bacia il cielo. Sento la necessità di comunicarlo a Josipa Lisac, la più famosa cantautrice Croata, che proprio in una delle sue canzoni più famose innalza questa preghiera: fammi vedere dove il Danubio bacia il cielo.

Contento della scoperta, mi auguro che anche più avanti il Danubio e il cielo ci permetteranno ancora di essere testimoni della loro passione divina.

Vai alla galleria fotografica di Camilla de Maffei.

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