“Il viaggio della speranza… parole residue, tra le tante in fondo alla giornata. Le ho lette in farmacia, su un bussolotto di vetro accanto alla cassa, c’era l’asola per infilare i soldi e la fotografia di un bambino appiccicata con lo scotch, uno di quelli da portare lontano per tentare un’operazione, un viaggio della speranza appunto”… Questo è l’incipit del libro che mi ha portato a Sarajevo…

“A Sarajevo?? Che ci vai a fare?”  o “Vai a fare la guerra?” sono state alcune delle domande poste da chi non ha capito, o da chi non sa, cosa è la Bosnia…

Oltre la frontiera con la Croazia chilometri e chilometri di distese verdi, piccole strade che si arrampicano con fatica sulle colline e poi sulle montagne… Il silenzio è tutto ciò che ti circonda, silenzio e riflessi sul fiume verde smeraldo che sembra viaggiare affianco a te… Qualche villaggio, qualche pastore che cammina con le sue pecore, sembra l’Italia di 30 anni fa…

Poi piccole e grandi città, bambini che giocano a calcio, anziani che passeggiano, donne che fanno la spesa, e capisci che i Balcani non sono poi così lontani da noi.  Non sono così diversi da noi. Tra un paese e l’altro piccole case distrutte, vite che non esistono più, famiglie senza più la loro terra…

Ed eccoti alle porte di Sarajevo, dopo un attesa lunghissima, accompagnata da case rattoppate con il cemento e palazzi di vetro, l’Holiday Inn, Radon Plaza, Oslobodjenje, il palazzo del Parlamento; il viale dei cecchini non c’è più, al suo posto una strada trafficatissima, dove le macchine corrono veloci affianco a minareti che svettano altissimi nella loro eleganza, gente semplice che attraversa la strada, corre a casa, a lavoro, passeggia. Ti chiedi come hanno fatto a sopravvivere, come stanno, cosa ricordano, ma soprattutto ti chiedi perché… Perché una guerra tanto stupida, che nessuno è riuscito ad impedire… Io non ricordo nulla di quella guerra, è solo un nome lontano della mia memoria di bambina, ero troppo piccola forse, eppure è bastato un libro perché questa città mi entrasse nel cuore… Questa città dalle mille anime, dalle mille facce, dalle mille domande…

 

Foto © Elena Pinna.

“Sarajevo è la città dei cimiteri” avevo letto… E’ vero, li vedi dappertutto, sulle colline, a cielo aperto, musulmani, cattolici, separati o uniti nella morte…  Ci passi per caso, non per scelta, perché sono ovunque in ogni parte della città. ‘92 e l’anno più ricorrente, è l’anno della guerra. Una guerra durata più di 1000 giorni, 11541morti, 1560 bambini.

Mentre noi andavamo a scuola e poi al mare per le vacanze, in 3 lunghissimi anni a Sarajevo è sparita una generazione, la nostra. E allora penso che niente può tornare come prima. Che gli uomini e le donne di questa città non hanno più lacrime. E che il loro dolore si è solo assopito. Poi ti ricordi quella parola, “speranza”, e allora forse si, si può ricominciare a vivere. Ma non ne sono più sicura.

Sarajevo ricorda i suoi morti di sempre, il ponte Latino e l’arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie, la Fiamma Eterna e i morti della Jugoslavia nella seconda guerra mondiale, e poi ovunque i morti del ‘92, ‘93, ‘94, ‘95, con le targhe nei muri, nei ponti, nei monumenti, nelle strade; Sarajevo piange i suoi bambini, con i quei  piccoli piedini impressi nel Monumento ai bambini uccisi, con quei sonagli che portano i loro nomi in cielo. Sarajevo non dimentica, eppure vive.

 

Foto © Elena Pinna.

Vivono le persone, con i loro problemi e le loro difficoltà, le guardi cercando quasi di entrare nei loro pensieri ma sai che non puoi riuscirci. Sai però che ognuno di loro ha perso qualche familiare, padri, madri, fratelli, figli che non ci sono più… Guardi gli anziani che giocano a scacchi nella piazza e ti chiedi quanti morti hanno raccolto quelle mani, o se hanno ucciso… E ora si tengono strette le loro sigarette, immancabili Drina, come fossero un tesoro, una conquista. Gente normale che cammina di fretta, con gli occhi bassi, sembrano freddi come il ghiaccio ma se chiedi un informazione sono disposti a prenderti a braccetto e ad accompagnarti. Alcuni telefonano, per avere la sicurezza di non dare informazioni sbagliate. Profondo rispetto, e silenzio. Chissà cosa pensano del nostro turismo post-guerra. “Sarajevo ok?” chiedono!! Sarajevo nel cuore…

Rinasce Sarajevo, sembra un cantiere a cielo aperto, sorgono palazzoni, eleganti ponti per il fiume Miljacka, i turisti passeggiano, tra un bosanka kafa e un cevapi tutto scorre tranquillo mentre le campane della cattedrale suonano e il muezzin canta.  Eppure la biblioteca nazionale è ancora li, a ricordare un triste destino di fiamme e di bombe, una lunga ricostruzione che sembra non avere mai fine. E anche quando finirà, essa sarà comunque privata dei suoi immensi tesori… 2 milioni di libri, manoscritti antichissimi che nessuno rivedrà più. Pensi, e speri, che non sia una metafora…

Giocano i bambini a Sarajevo, nella piazze, nei campetti, nei centri sportivi che faticosamente rinascono. Qualcuno gioca a fare la guerra, sparando tra i passanti… Niente di più normale, certo, ma qui niente è la stessa cosa… C’è anche chi non può permettersi di giocare, qui come ovunque, ma qui, forse, un po’ di più.

Si riposa nel pomeriggio Sarajevo, all’ombra dei suoi mille bar, con la musica che gira in continuazione e che ti porta in luoghi e tempi lontani, accanto alle rose rosse che, ancora una volta, ricordano le persone uccise dai cecchini, quelle che non si sono arrese alla guerra, quelle che non si sono piegate; quelle rose che tu, oggi, non hai il coraggio di calpestare.

E poi canta il muezzin, perché è tempo di preghiera per i musulmani, mille voci che risuonano ovunque e che si alzano in cielo. Si, quelli che in Italia fanno così paura, quelli vittime di razzismo, quelli così diversi da te… Eppure cos’hanno di diverso? Una  parola, ecco cosa ci differenzia…

Sarajevo è tornata alla sua normalità, la sua tolleranza, la sua convivenza, la sua multiculturalità, racchiusa in quella gola che sprofonda tra le montagne. Quelle oscure, pericolose, dove cartelli surreali compaiono dietro un filo spinato che si perde nel verde… “MINE”…  200.000 ordigni aspettano di esplodere sopra Sarajevo, incredibile, un patrimonio boschivo immenso, bellissimo, ma recintato perché dopo tutti questi anni Sarajevo è ancora un campo minato.

Ma non finisce qui, oltre il filo spinato, oltre le bombe, oltre tutto questo sai che c’è anche la Serbia.

La Serbia? Si, siamo in Bosnia, ma poco più avanti c’è la Serbia, anzi la repubblica Serba di Bosnia… Paradossi di un accordo di pace (Dayton,  1995) che ha creato all’interno dello stesso stato una Federazione croata-musulmana e una Repubblica Serba di Bosnia… Ma allora della Bosnia che rimane?? Un labirinto di etnie, due entita’, tre parlamenti con cinque presidenti, tre governi con due eserciti, due alfabeti, tre religioni. E un inno senza parole perché bosgnacchi, croati e serbi ancora non riescono a mettersi d’accordo sul testo.

Ma il paradosso più grande lo si trova a Srebrenica. Prima era una città ricca e abitata, con le miniere d’argento che davano lavoro a tanta gente. Poi  Srebrenica è diventata un numero… 8372… 8372 persone musulmane sequestrate, torturate, uccise e smembrate in poche ore dai serbi nel luglio 1995, sotto gli occhi immobili dei Caschi Blu Onu, che avevano dichiarato area protetta quel luogo, dell’Europa e del mondo.  Mentre uomini, vecchi e ragazzi venivano uccisi, le donne venivano violentate a poca distanza, alcune di loro sequestrate per mesi e obbligate a portare avanti la gravidanza.

E adesso li ritrovi qui questi uomini, vittime innocenti di uno stupido genocidio. Tra quelle infinite stele bianche nel memoriale di Potocari non puoi fare altre che guardare in silenzio e con sgomento ciò di cui l’essere umano è capace quando odia, non una religione, non un etnia, ma solo se stesso. Ma quel silenzio dopo pochi minuti diventa assordante, fa più rumore di tutte le bombe del mondo e vorresti solo fuggire. Sventolano le bandiere bosniache, piangono le madri su quel muro di nomi circolare, e allora sale la rabbia per Srebrenica, uccisa, torturata, stuprata e passata in mano serba grazie a quello stupido accordo di pace. Ma come abbiamo fatto?? Quante vittime abbiamo sulla coscienza, noi che dopo lo sterminio ebreo avevamo giurato che non sarebbe più successo niente di simile? A un ora d’aereo da casa nostra, divisi solo da un minuscolo mare?

Spicca una croce tra tutte quelle stele, è quella di Hren Aleksandar Rudolf, cattolico croato ucciso dai serbi perché non voleva lasciare i suoi amici musulmani. La madre ha deciso di seppellirlo li, “E’ morto con loro. Lasciatelo riposare con loro” ha detto. Srebrenica ha vinto.

E ancora Mostar e il suo bellissimo Stari Most, il ponte distrutto nel ’93 dai croati che dovevano difendere la città, ricostruito nel 2004 e dichiarato patrimonio dell’umanità. E’ uno spettacolo il centro di Mostar, con tutte quelle botteghe e quel fiume verde smeraldo che lo attraversa, le cui gelide acque sono “proprietà” dei tuffatori del ponte .  Di notte tutto brilla e la magia è ovunque, chiese, moschee, ponti… Eppure giri l’angolo e gli edifici sono ancora distrutti, la povertà raggiunge livelli estremi, i bambini chiedono l’elemosina e una rissa tra ragazzi toglie per un attimo tutto l’entusiasmo… Sono cose normali pensi, eppure qui tutto assume un altro aspetto, magari sono musulmani e croati, o serbi. E’ vero, hanno ricostruito il ponte, quello stesso ponte che mette di nuovo in collegamento la parte musulmana con quella croata della città, ma la gente quando la “ricostruiscono”??

Don’t forget Mostar.

Lasci con l’amaro in bocca questa città della Bosnia, dove sventolano le bandiere croate e dove anche un matrimonio diventa l’occasione per ricordare a tutti il proprio nazionalismo.

 

Foto © Elena Pinna.

Ritrovi la sera a Sarajevo, infuocata da un tramonto bellissimo, e quelle piccolissime luci che ogni notte si accendono sembrano voler mantenere viva la speranza, la speranza che ciò che è successo qui non succeda mai più, “in nessun tempo e in nessun luogo”, lo hai appena letto… Le ultime ore in questa terra rinata dalla violenza e dall’odio, dove Oriente e Occidente si incontrano, dove i musulmani festeggiano il Ramadam mentre le campane della Cattedrale suonano a festa per la domenica. La lasci con un sorriso Sarajevo,  un sorriso malinconico che già trabocca di nostalgia, e con tanta gratitudine per ciò che ti ha insegnato, che ti ha trasmesso, sperando che il futuro porti a questi abitanti una meritata serenità. Non soldi a palate, macchine di lusso, viaggi megagalattici, ma un’esistenza normale, una convivenza pacifica, una vita senza più bombe, senza più odio, senza più etnie. Per alcuni un corpo su cui piangere, perché 14mila persone non sono mai tornate dalla guerra in Bosnia. Il presente ha bisogno del passato per costruire il futuro.

Hvala Sarajevo, hvala Bosnia per la tua umiltà, corri veloce sulla tua nuova autostrada, su terre martoriate che l’Europa che non ha voluto aiutare, corri veloce verso il tuo futuro, verso la tua nuova vita, conserva la tolleranza che l’Europa invidia e che il nazionalista teme, fanne il tuo tesoro e un giorno scoprirai di essere grande. Forse sarai di nuovo sola, ma nell’essere soli ancora una volta ci si ritrova tutti insieme… Hvala….

Agosto 2012

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