Recensione di Aleksandra Ivić, nel quadro delle attività da lei curate per il ventesimo anniversario del conflitto del 1999

Pubblicata su Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa il 2 luglio 2019

La storia di “In serbo” è ambientata in una zona collinare non tanto lontana da Belgrado, a sud-est, nel breve periodo della primavera del 1999, durante i tre mesi dei bombardamenti NATO sulla Jugoslavia (all’epoca Serbia – compresi Kosovo e Vojvodina – e Montenegro).
Il libro non è un vero e proprio diario, ma un romanzo di formazione con tanti elementi autobiografici. All’epoca dei fatti descritti nel libro, la giovane Mila ha soltanto dodici anni ed è poco più di una bambina, affacciata sul mondo e curiosa di scoprirlo.
Dopo vent’anni di gestazione artistica e di maturazione personale, Milica prende in mano la penna e trasferisce sulla carta bianca i ricordi di quella sua prima giovinezza. Quello che ne esce non è soltanto una semplice (e a volte complessa) storia personale, non è un “j’accuse” contro gli artefici della guerra e contro la guerra in generale, non solo la nostalgia per una sua profonda, autentica e tanto amata Serbia e nemmeno solamente un racconto drammatico di quello che è successo al popolo serbo nell’ultima primavera del XX secolo: è tutto questo insieme e molto di più.
La guerra qui è una protagonista, ma fa da sfondo e da cornice di una storia che comprende tante altre storie. L’autrice, con ingenuità, semplicità e purezza della sua giovane età, cerca di capire le ragioni della guerra e ricorda che quand’era ancora piccolissima, negli anni novanta della dissoluzione della Jugoslavia Federale di Tito, avvertiva quell’ombra sinistra che è poi rimasta a sovrastare tutta la sua esistenza. Mila non ha le risposte, non sempre, ma ha le domande, quelle che si potrebbe porre qualsiasi adolescente, e in questo caso le sue sono profondamente influenzate delle circostanze esterne estreme: in un habitat “naturale”, ma sotto le bombe di un nemico invisibile. “Le bombe cadevano come la pioggia. E per quella pioggia gli ombrelli non c’erano. Questa era una guerra che arrivava dal cielo”. Il nemico non si vede, ma è presente ogni sera, ogni notte, e la sua presenza assidua, rumorosa e aggressiva si colloca col tempo nella memoria della giovane come un ricordo indelebile. Quegli aerei invisibili portano morte e causano distruzione, e Mila, attenta e riflessiva, cerca di darsi delle spiegazioni per quello che succede attorno a lei e alla sua famiglia, al suo popolo.

Settantotto giorni di guerra senza nemmeno un momento di tregua. Anzi, settantotto giorni di aggressione, perché nessuno nel mio paese hai mai usato il sostantivo “guerra” per riferirsi a ciò che è accaduto . Si chiama “aggressione” e lo era davvero. La guerra si fa quando ci sono due parti che combattono. Qui non si combatteva. C’era soltanto una parte che attaccava e l’altra che cercava di proteggersi.”
All’interno di questa cornice “alla Guernica”, Milica inserisce altre storie, tratte dall’antica tradizione popolare e raccontate dalla sua nana, la nonna, durante le lunghe notti in cui lei e la sua famiglia, insieme ad altri parenti e amici, sono nascosti in un bosco, in una koliba (una casetta di villeggiatura fatta di legno), dove passano i settantotto giorni degli attacchi aerei militari della Nato. Quelle notti, quel rifugio naturale, quel cielo stellato come un dipinto di Van Gogh, quella paura malcelata e onnipresente, durante i bombardamenti, ma anche il coraggio con cui si tentava di affrontare una nuova notte, un’altra sirena d’allarme, un’altra possibilità di essere “per sbaglio” colpiti diventano racconto. Grazie a quelle storie tipicamente balcaniche Mila sopravvive all’attesa angosciante di ogni nuova notte, all’oblio apparente e momentaneo della realtà in cui è costretta a vivere. Quelle storie rimangono per sempre dentro di lei, come i semi di una futura vita, come un continuo e prezioso filo magico che la lega alla bambina che è stata.
In questo intreccio di destini e vite, di passato e presente, attraverso i molteplici livelli di una narrazione fresca, scorrevole e leggera, Mila canta un inno alla vita, a dispetto della tragedia che è costretta ad affrontare, e il suo popolo con lei. Nel mondo quasi fiabesco di Mila, di Nana, di Ivan, di Senka, di Mihajlo e degli altri protagonisti del romanzo, le immagini di guerra, o meglio, dell’aggressione, appaiono come un quadro, come la scena di un film in bianco e nero, in cui in cielo si stagliano enormi volatili minacciosi in continuo attacco, nell’aria si sentono forti le detonazioni e l’orizzonte si colora di un rosso non limpido, ma pieno di fumo e di nuvole scure che lo chiudono senza speranza. Immagini reali, completamente opposte, nella forma e nella sostanza, al mondo innocente e bucolico, tranquillo e onirico in cui Mila viveva.
Quando finisci il libro, se chiudi gli occhi vedi sotto le palpebre serrate proprio questo: un bosco verde, un fiume che nonostante tutto scorre lento e indifferente, un prato morbido pieno di fiori bianchi e gialli, una ragazzina felice che sogna a occhi aperti, raccoglie sassi e conchiglie, parla col vento e ama stare da sola a fantasticare; una comunità di persone che insieme cercano di farsi coraggio e di sentirsi più forti, più uniti; una casa bianca, con davanti un ciliegio in fiore, in attesa che i suoi abitanti ritornino; una bambina che corre in bici con le braccia aperte, sorridente; coppie che si amano, madri che preparano crêpes buonissime in mezzo al bosco, mai più così dolci come quelle di allora; i bambini che giocano, ignorando il pericolo e la sofferenza.
E poi vedi le immagini in bianco e nero delle bombe che cadono, degli aerei che sovrastano tutto occupando il cielo, del fuoco e del fumo, delle nuvole nere; immagini di macerie e di gente ferita o morta; di ponti gettati nel fiume, spezzati a metà, staccati dalle rive; il rumore angoscioso di ambulanze, sirene, aerei, boati, grida, ma anche risate, musica, canzoni.
I ponti colpiti facevano molto male. Impotenti, crollavano nelle acque che poco prima sovrastavano, mentre i fiumi sanguinavano in quel frangente. (…)
Spesso, l’uomo non sa che ogni azione in realtà è un ponte, altrimenti è inutile. Scrivere, tradurre, creare, produrre, offrire, donare, tendere la mano, aiutare, amare, comunicare, dialogare, vedersi, ascoltarsi, baciarsi, abbracciarsi… tutto è un ponte.”
Ecco, queste immagini nel libro di Milica Marinković si sovrappongono, si intersecano, si annidano l’una nell’altra fino a diventare un tutt’uno. Sembrano due mondi diversi, lontani, quelli che l’autrice racconta, e invece costituiscono un’unica realtà in cui i luoghi di nascita e i “non-luoghi” di morte sono la stessa cosa: un unico luogo chiaroscuro, dove eternamente si incontrano Eros e Thanatos.
Tenere “in serbo” una storia sull’identità geneticamente e culturalmente già data per un bambino che sta per nascere sembra il compito di Milica Marinković in questo romanzo breve, lucido e prezioso. E lei, come la sua nana, incanta con le sue storie, che vanno oltre il tempo e superano confini fisici, mentali e linguistici, per essere raccontate altrove diventando così universali.

Milica Marinković, nata a Smederevo (Serbia) nel 1987, laureatasi in Lingue e letterature romanze e in Linguistica francese presso l’Università di Belgrado, ha concluso un dottorato di ricerca in Francesistica all’Università di Bari “Aldo Moro” con una tesi sul labirinto nella letteratura francofona. Ha pubblicato diversi saggi e racconti su riviste e siti specializzati e fa parte della redazione di «incroci. Semestrale di letteratura e altre scritture» (Adda). È (co)traduttrice di diversi volumi e coautrice di due antologie poetiche. Prima di In serbo, ha pubblicato il romanzo Piacere, Amelia (Les Flâneurs 2016).

Aleksandra Ivić
Studiosa della cultura e letteratura dei paesi dell’ex Jugoslavia. Ha moderato vari incontri e presentazioni di libri, attinenti alla tematica dei paesi balcanici. Con i suoi articoli ha contribuito ai contenuti del portale “Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa”.

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