Dobrugia, estremo lembo sud orientale della Romania affacciato sul Mar Nero. Ultima regione romena ad esser stata liberata dall’Impero Ottomano a seguito del congresso di Berlino del 1878. Come ha scritto Giuseppe Cossuto, è questo il luogo dove “i cavalli delle potenti confederazioni nomadi turche si sono fermati per abbeverarsi, pronti per lanciare nuovi attacchi verso i territori bizantini. Dove la «migrazione dei popoli» si ferma e costruisce città, senza perdere la sua essenza nomade. E’ la Scithya Minor degli autori classici, la punta pronunciata dell’Asia incognita ed immensa inserita verso il cuore dell’Europa nota, tra le steppe scitiche e le ricche città portuali di raffinata civiltà urbana. E’ il rifugio, lungo i secoli, di santi e guerrieri ottomani e anti-ottomani. E’, in poche parole, il limes e la koinè. 

Verso est

In effetti, a guardarlo bene, il profilo dei monti Macin che si staglia attorno al paese di Greci – il nome deriva da un antico insediamento di contadini greci giunti nel tredicesimo secolo e dediti prevalentemente alla coltivazione di legumi – ricorda le pendici del monte Jouf in val Colvera. E’ forse anche per questo che diverse famiglie provenienti dalle valli attorno a Maniago, Poffabro, Pordenone e alcuni anche dalla veneta Rovigo, dopo una breve sosta in Moldavia decisero di fondare qui le basi di una comunita’ sopravvissuta ad un secolo e mezzo di storia.

Siamo attorno alla metà dell’ottocento, quando parte del nord-est italiano – sotto la corona austro-ungarica come molti territori dell’Europa sud-orientale – stroncato da carestie ed epidemie intraprese la strada dell’emigrazione verso est. Attirati dalla richiesta da parte dei latifondisti romeni di manodopera specializzata, di “mestieri” – tagliapietre, carpentieri, muratori, piastrellisti, fabbri, agricoltori e altri che vennero impiegati nei lavori delle costruzioni ferroviarie di fine e inizio secolo – intere famiglie partirono dal Friuli-Venezia Giulia verso la Romania Austro-Ungarica e Ottomana. Tra il 1870 e 1880 erano presenti qualche centinaio di persone, mentre nel decennio successivo la cifra si aggira attorno alle settemila anime; nel primo ventennio del ventesimo secolo vivevano in Romania oltre sessantamila uomini e donne provenienti dal Friuli–Venezia Giulia e, in misura minore, dal Veneto. A Greci, come nella vicina Iacobdeal, si trovavano due importanti cave di un particolare granito proveniente dai monti Ernici. Con questa pietra dura e resistente (la piu’ resistente del mondo, dicono) è stato costruito il famoso ponte di Cernavoda, l’unico ad attraversare il Danubio in territorio romeno.

A seguito della nascita del regno di Romania (marzo 1881) sono i consolati a gestire i flussi migratori. Tra il 1880 e 1890, attirati da promesse di ricchezza e prosperita’, decine di uomini friulani, con famiglie al seguito, arrivano a Greci per lavorare nella vicina cava. In breve tempo il paese, complice anche la presenza di migliaia di ettari di terreno coltivabile, diviene un importante centro economico della regione. Col passare dei decenni accanto a friulani e veneti si aggiungono famiglie provenienti dalla Campania (in particolare dalla zona di Caserta) e dopo il 1945 diversi italiani fuggiti dalla Dalmazia.

Gli anni a cavallo della seconda guerra mondiale rappresentano il momento di maggior estensione della comunita’ friulana di Greci giunta ad un numero imprecisato tra le quattrocento e seicento persone, per poi ridursi nel corso dei decenni alle circa settanta donne e i pochissimi uomini che vi abitano oggi. Se i mariti sono morti negli ultimi quindici anni, i figli sono partiti per l’Italia già all’inizio degli anni novanta, quando alla caduta del regime di Ceausescu si è aggiunta nel 1992 la chiusura della cava in quanto l’anno prima tutta l’area del Delta e’ diventata patrimonio dell’umanità Unesco.


I monti Macin. Foto – flickr Gabriel         

Broskari

Durante il mio primo viaggio a Greci ho avuto la possibilita’ di chiacchierare con Otilia Bataiola, presidente dell’associazione dei Friulani di Greci. Seduto in una piccola sala ricolma di libri, tra edizioni romene di Pavese, Proust e Verne, mi sono lasciato guidare dal lento cadenzare della voce di Otilia – un elegante italiano appena tradito da inflessioni venete – nelle affascinanti narrazioni celate dietro a questo piccolo paese: “mio nonno paterno emigrò assieme ad una trentina di persone a Iasi, vecchia capitale del Principato di Moldavia, per lavorare nelle risaie della zona. Trovandosi però senza strutture abitative per affrontare il gelido inverno alle porte furono trasferiti in Dobrugia e precisamente nel villaggio di Cataloi, a una quindicina di chilometri da Tulcea, dove il governo romeno assegnò loro diversi ettari di terreno coltivabile. I primi insediamenti di italiani in questo paese risalgono agli anni ’40 e ’50 dell’ottocento, e ancor oggi in centro si può camminare lungo «Strada Italienilor», la strada degli italiani. Qui nacque mio padre.”

Inizialmente i matrimoni avvenivano solo tra italiani, e in casa si parlava sia friulano che veneto. Col tempo è rimasto solo quest’ultimo dialetto in quanto più vicino all’italiano rispetto ai complessi idiomi friulani: “quando non ci si voleva far capire dai bambini si passava al friulano. Che dialetto complicato! Io stessa ho finito per imparare solo il veneto.” A partire dalla seconda generazione hanno inizio i matrimoni misti con i membri di una comunità romena sempre più numerosa: l’inizio del novecento è contrassegnato infatti dalle politiche di colonizzazione etnica ed omogeneizzazione culturale della Dobrugia attuate dal governo romeno, tese a stabilire una maggioranza autoctona controbilanciando così la presenza turco-tatara sino a quel momento predominante. “L’integrazione, se cosi’ si può definire, e’ stata lenta ma senza grandi conflitti: gia’ dopo la prima generazione i matrimoni misti sono stati la normalita’, io stessa mi sono sposata con un romeno… ci chiamavano «broskari», i mangiatori di rane. Cosi’ un giorno, per vendicarsi, i nostri preparano un bel pranzo a base di rane impanate e invitano gli amici romeni dicendo loro «venite venite che abbiamo preparato uccelletti per tutti!».”

La chiesa di Santa Lucia è stata costruita tra il 1904 e il 1912. La famiglia Vals dona cinquemila metri quadrati del proprio terreno al fine di costruire la chiesa cattolica di Greci, e cosi’ nel 1912 il parroco tedesco Gustav Muller puo’ celebrare la prima messa. “Ancor oggi, ogni anno, il tredici dicembre, ci si ritrova davanti alla chiesa insieme a tutti gli italiani di Romania con radici a Greci per celebrare la festa di S. Lucia, patrona della vista – scelta molto probabilmente per proteggere gli occhi degli uomini che lavoravano nelle cave. In passato pero’ i momenti di ritrovo erano molto piu’ frequenti. Di pomeriggio si giocava a bocce nella casa col cortile piu’ ampio, poi la sera mentre gli uomini bevevano vino e chiacchieravano le ragazze danzavano e intonavano vecchi canti friulani come Castel da Udine. Ne ricordo ancora le parole, tramandatemi da mia madre…”

Ai tempi del mio primo viaggio in Dobrugia il parroco della chiesa di Santa Lucia era Vicenzo Pal, poi purtroppo venuto a mancare. Di origini magiare, e’ stato professore di storia delle religioni e direttore del liceo cattolico di Bucarest. Dopo aver trascorso cinque anni presso il Santuario di Madonna delle Grazie, a Citta’ di Castello, decise di trasferirsi qui a Greci. Per “ricostruire invece che demolire”, come mi disse egli stesso, cio’ che resta della comunita’ cattolica. Qui a Greci non c’e’ stata una fede che ha prevaricato sull’altra, tant’e’ che Vicenzo e il pope locale erano legati da una buona amicizia. Molto piu’ semplicemente, “nella miriade di matrimoni misti, laddove la ‘parte’ cattolica era piu’ forte, quella ortodossa si convertiva; e cosi’ il contrario”.
In breve tempo don Vicenzo riportò in vita la parrocchia, mise in piedi un doposcuola gratuito durante il quale insegnò a tutti i bambini del paese (non solo italiani, non solo cattolici, pure la figlia del pope era un’assidua frequentatrice) la lingua italiana e inglese; una volta al mese iniziò a celebrare messa in italiano, “per un ritorno alla lingua italiana slegato dai vari dialetti che pure sono rimasti tra la popolazione anziana” e durante l’estate si mise ad organizzare gite di gruppo ed iniziative di ogni genere.

“Sino alla seconda guerra mondiale qui venivano solo preti italiani. Poi dopo il ’45 furono sostituiti da preti romeni che pero sostavano per periodi brevissimi: fu a partire da questo decennio che si e’ iniziato a perdere l’uso della lingua italiana, anche a seguito della chiusura da parte del governo romeno dell’unica scuola italiana del paese”. La missione di don Vicenzo era di preservare l’identita’ linguistico-culturale della comunita’ italiana, a rischio estinzione. Il suo sogno e’ di aprire un vero e proprio oratorio, ma i soldi sono pochi cosi’ come gli aiuti dall’esterno: “neppure da parte dell’arcivescovato di Bucarest ho ricevuto alcun aiuto, pensa che nel 2005 volevano persino chiudere la parrocchia. Cosi’ ho fatto le valigie e in un mese ero di ritorno dall’Italia. Dopo aver scritto una lettera al vescovo di Bucarest, ho ricevuto il permesso di trasferirmi a Greci e provare a far rimanere in vita la parrocchia. Insomma mi son dovuto nominare da solo parroco di Greci”.

Ora don Vicenzo se ne è andato. Chissa’ quanto a lungo potra’ resistere la piccola comunità dei friulani di Greci, dolce custode di un’umanita’ sempre piu’ difficile da scovare. E di una memoria storica pressoche’ rimossa: quella della nostra emigrazione.

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