di Francesco Mongera – In movimento, finalmente in continuo movimento. Un’altra volta si ripercorre Prijedor – Kraljevo – Peja/Peć, e ritorno per la stessa strada. Sguardi a destra e a sinistra, la pianura della Croazia che scorre veloce ai lati dell’autostrada, sempre uguale, Belgrado e la sua arteria cittadina con gli stessi buchi e gobbe che si riconoscono quasi uno ad uno a due mesi di distanza tanto erano e rimangono marcati. Poi il paesaggio si fa ondulato nel scendere verso Kragujevac. Ancora di più percorrendo la “stradina” che da lì porta a Kraljevo. Tutto è più verde, illuminato dal sole sul calare, finché non subentra il buio e restano le ultime curve prima di entrare in città. Anche la stretta valle nella quale è posizionato il confine Serbia-Kosovo, attraversato il giorno successivo, ha cambiato luce e colori: due mesi fa era ancora brullo, quasi lunare, ora è germogliato.

Ormai mi muovo veloce, riconosco gli incroci, le distanze, i tempi. La variabile impazzita, quella che ti tiene sveglio e vigile anche quando l’attenzione cala, è il massacro di animali a lato e sulla strada. Viaggiano di Balcani bisogna tenere in considerazione anche quest’aspetto, da un lato triste (e pericoloso), dall’altro confortante: evidentemente la natura domina al di fuori della striscia di asfalto. Cani gatti e ricci sono una costante ma questa volta, a primavera inoltrata, anche qualche gallina scappata dal pollaio, un paio di uccelli che onestamente ci si chiede come possano essere finiti lì, e nella strada che porta da Mitrovica a Raska, sulla via del ritorno, sette serpenti. Esclusi quelli che un uomo portava, vivi, in un secchio trasparente. Mi posso ritenere contento per non aver contribuito affatto nei 1500 kilometri percorsi. L’unico rischio, se cosi si può definire, con una tartaruga, debitamente schivata e portata a lato strada da una mia compagna di viaggio.

Animali a parte, è stata una carovana costellata di incontri, alcuni pianificati, altri inaspettati. Ne nascono pensieri, riflessioni. E cosi ci si ritrova a Kraljevo a parlare con un gruppo giovanile che propone per quest’anno tutta una serie di attività con filo conduttore l’antifascismo. Con un concetto così, tanto datato quanto attuale, il rischio è di cadere nella retorica di parte, nella dietrologia, nell’ideologia. Chiedo se la loro prospettiva è solo storica. Negativo: la storia usata per toccare il presente, i nazionalismi, il razzismo, l’omofobia, mi viene detto. Avverto una certa sincerità nella spiegazione, e un’assenza di quella componente ideologica, partitica, dogmatica che spesso si appropria del concetto. Credo di capire, e mi viene anche accennato, che l’etichetta “antifascismo” in qualche modo ha una declinazione sfumata nei Balcani. Un incontro rinfrescante, di cui sentivo il bisogno dopo tanti mesi vissuti in una realtà che, almeno a me, sembra nascondere certe discussioni.

Nel ritorno ci si ferma a lavare la macchina. Il lavaggio è un rito, portato a termine con precisione certosina. L’autopraona è una delle caratteristiche unificanti dell’ex-Jugoslavia: ovunque ci si trovi ci sarà sempre un auto lavaggio, spesso piccolo e a gestione familiare. Abbiamo due macchine davanti, il padrone si scusa con noi per l’attesa preparandoci con quello che trova – dei ciocchi di legna e due sedie traballanti – un angolo ombreggiato dove prendere il caffè che ci offre. Riflettiamo, io e il mio compagno di viaggio acquisito, sullo spiccato senso balcanico della pulizia personale e delle proprie cose. Quasi un’ossessione, che si contrappone in maniera netta alla totale mancanza di cura della cosa pubblica. Davanti a me l’immagine vista più volte, soprattutto a  Peja/Peć, delle persone che con l’acqua ossessivamente puliscono i propri giardini, convogliando spazzatura di vario tipo verso la strada.

Il tragico destino degli animali. Il gruppo giovanile e il loro antifascismo moderno. L’autolavaggio, il senso dell’ospitalità e le contraddizioni della pulizia. Manca l’incontro fortuito. Succede a Belgrado, ultima tappa prima di ritornare a Prijedor, in centro città cercando un posto dove pranzare. I miei occhi incontrano una signora che chiede l’elemosina. Gimme money, lo sa dire in tante lingue. Lo so per certo, due mesi fa abbiamo condiviso per un quarto d’ora una panchina di fronte al monastero di Gračanica, fuori Prishtina. Lei ripeteva la sua richiesta ai passanti in visita al monastero, io stavo seduto aspettando che uscissero i miei compagni di viaggio di allora. Cercò di dirmi qualcosa ma non capii. Questa volta si incrociano solo gli sguardi di noi che ci muoviamo in continuazione, spinti da voglie e necessità diverse.

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