Viaggiamo da qualche ora e il confine orientale si sta ormai materializzando. A dire il vero il Carso sta già annunciando da qualche chilometro che i Balcani sono ormai vicini ed allora la frontiera di Fernetti, oggi stranamente meno permeabile del solito, sembra solo l’ennesima conferma di qualcosa che già si respira.
Siamo in otto, alcuni di noi conoscono l’area dell’ex Jugoslavia ormai da tempo, altri ci entrano per la prima volta. Silvia e Alessia lavorano a Sjenica, nel Sangiaccato serbo come volontarie ormai da nove mesi. Volontarie come Eleonora e Martina, che viaggiano in Serbia per la prima volta. Nicola, invece, partecipa alle iniziative del Tavolo Trentino per la Serbia da ormai quattro anni, mentre Alessandro è fresco di un viaggio in Bosnia. Seguono Loris, studente di lingua serbo-croata e studioso dell’area, ed io, che la Serbia l’ho vista solo di sfuggita.
Di lì a qualche ora abbiamo raggiunto Belgrado e imboccato l’autostrada per Nis, direttrice che potrebbe portarci alla città imperiale, Zarigrad, odierna Istanbul. Ci fermiamo invece a notte fonda nella città dei re, Kraljevo, centro medioevale della Serbia meridionale e luogo d’incoronazione dei primi re della dinastia Nemanjic, oggi cittadina di 100 mila abitanti di cui 30 mila profughi provenienti da svariate regioni dell’ex Jugoslavia. D’altronde basta attendere la giornata successiva per avere un assaggio della composizione geografica della popolazione locale.
Al Museo Nazionale della città incontriamo gli otto ragazzi serbi che partecipano al campo di lavoro. Viktor, originario di Gorazde e fuggito dalla Bosnia nel ’94, Slobodanka (Boba),vissuta a Spalato e giunta qui nei primi anni novanta, Slobodan (Boban) che ha vissuto a Kossovo Polje fino al ’99 e Jasna, originaria della Macedonia. Gli altri, Darko, Jelena, Milkica, Marina e Aleksandra, sono tutti originari di Kraljevo. Dopo un rapido giro di presentazioni, appare evidente che quello che ci ha spinto a partecipare a questa esperienza è una mutua curiosità per qualcosa che non conosciamo e che proprio per questo ci affascina. Non posso che vedere nei volti di questi ragazzi dai tratti slavi e nei loro capelli e sopracciglia corvine la storia di questa terra e lo scambiare un paio di battute con loro mi fa comprendere che non è solo la loro fisionomia ad esserne impregnata.
Viktor e Darko non smettono un attimo di descrivere con estrema minuziosità le scene della storia dello stato moderno serbo raffigurate negli arazzi e nei quadri esposti nel museo e quando li osservi decantare le imprese del Karađorđe nell’insurrezione antiturca del 1804, vedi nei loro sguardi un trasporto emotivo eccezionale, quasi fossero stati presenti fra le file degli insorti. Nei giorni successivi Viktor ci ricorderà più di una volta e con il sorriso fra le labbra che i Serbi sono innanzitutto un popolo di combattenti, che vivono la guerra come un elemento indispensabile della loro identità. Mi piace credere che la sua sia davvero una battuta ma non posso non riconoscere come se non la guerra sia certamente la storia ed il passato, talvolta univocamente interpretati, ad impregnare l’identità di questi miei coetanei. Šumadija. La regione dei boschi, quelli che accompagnano il nostro viaggio giornaliero da Lopatnica, piccolo villaggio dove pernottiamo ospiti dell’agritur di Biljana e della splendida signora Zoka, a Maglic, località della valle dell’Ibar, dove si erge la fortezza medioevale attorno alla quale si svolgono le principali attività del campo estivo. Ai piedi del castello, scorre impetuoso e fangosissimo lo stesso fiume che separa le parti albanese e serba di Kosova Mitrovica, qualche centinaio di chilometri più a sud. Il paesaggio ricorda in tutto e per tutto le austere vallate della Bosnia, anche nella deforestazione selvaggia che ha denudato la maggior parte delle colline rocciose che delineano l’orizzonte.
Da qualche giorno stiamo ripulendo da bottiglie di plastica ed altri più improbabili rifiuti le pendici della collina fortificata e rimettendo in sesto un tratto di sentiero che risale una stretta valle scavata dal corso di un torrente dall’acqua cristallina. Di solito lavoriamo in coppie, talvolta composte da un serbo e da un italiano e, pare superfluo dirlo, il valore aggiunto di questo campo sta tutto qui. Nel dialogo continuo e spontaneo che riempie le nostre giornate. Parliamo di tutto e soprattutto ci ascoltiamo come bambini incuriositi e assetati di conoscenza. Inevitabilmente si discute spesso anche della storia più recente di queste terre, confrontandone diverse letture, consolidatesi sulla base di fonti diverse. Ancora una volta non posso non notare la permeante presenza nei discorsi dei ragazzi serbi di una lettura univoca di eventi storici passati che hanno caratterizzato l’evoluzione politico-religiosa del popolo serbo. È qualcosa di inglobante che caratterizza anche il loro sagace sarcasmo, come quando Boban, in risposta ai dubbi espressi da Darko sul futuro status del Kosovo, risponde a denti stretti che della Serbia fra qualche anno non resterà che il pasciallato di Belgrado.
La storia scorre anche sulle pareti della locanda di Miro, fondata nel 1825 e fino ad oggi distintasi per la scrupolosa e gelosa tutela dei piatti più tipici della tradizione serba. I muri del locale sono un susseguirsi di ritratti delle autorità politiche e religiose serbe del 1700 e 1800. Su tutti si staglia una rappresentazione in chiave moderna della torre di Nis, costruita dagli Ottomani con i teschi degli insorti serbi del 1809. È qui che trascorriamo gran parte della nostra prima domenica, in ossequioso rispetto della semantica slava (in serbo domenica si dice “nedelja”, letteralmente “facendo nulla”).
Ed è ancora la storia ad accompagnare il nostro tragitto verso il Kosovo, dopo dieci giorni di permanenza a Kraljevo, quando ci fermiamo presso uno dei luoghi più sacri della chiesa ortodossa serba, il monastero di Studenica, fondato nel 1196 da Stefan Nemanja, Gran Principe di Serbia e padre del fondatore della chiesa autocefala serba, San Sava. Dei ragazzi serbi solo Viktor e Boba sono rimasti con noi. Entrambi, per ragioni diverse, decideranno di non accompagnarci oltre, in quella terra che hanno ripetutamente bollato come il loro sanctum sanctorum. Prima della partenza per Pec, troveranno ancora il tempo per donare ad ognuno degli italiani un crocefisso ortodosso da portare al collo che in molti ci consigliano di nascondere sotto le magliette una volta superato il primo check-point dell’UNMIK per l’entrata in Kosovo.

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