Il 15 ottobre 1989 moriva a Parigi il grande scrittore jugoslavo Danilo Kiš.
Era nato 54 anni prima, nel 1935, a Subotica, da Eduard Kiš, nato Kon, ebreo ungherese, e da Milica Dragićević, montenegrina.
Bambino, ha vissuto la persecuzione antisemita dapprima nella Vojvodina invasa dalle truppe ungheresi. La famiglia si è poi spostata nella città di Kerkabarabás, nell’Ungheria occidentale, dove il piccolo Danilo ha frequentato le elementari e da cui il padre, nel ’44, è stato deportato ad Auschwitz (Danilo si è salvato, molto probabilmente, perché battezzato con rito ortodosso a Novi Sad). Concluso il percorso scolastico a Cetinje (Montenegro), dove si era trasferito con la madre e la sorella maggiore dopo la guerra, ha frequentato l’Università di Belgrado, laureandosi in letteratura comparata.
Testimone della complessa realtà danubiana e jugoslava, Danilo Kiš è stato traduttore dal russo, dall’ungherese e dal francese (ha insegnato lingua e letteratura serbocroata a Strasburgo, Bordeaux e Lille) e grande scrittore. Con i suoi romanzi (“Giardino, cenere”, “Dolori precoci”, “Clessidra”, “Una tomba per Boris Davidović“, “Enciclopedia dei morti” – per citare almeno i titoli principali tradotti in italiano) è stato uno dei maggiori esponenti letterari di un contesto culturale e linguistico, quello serbo-croato, che al momento della scomparsa dello scrittore si andava fatalmente sfaldando.
Cosa avrebbe fatto e detto Danilo Kiš vedendo le guerre fratricide degli anni ’90? Se lo chiede, ricordandone la figura su Osservatorio Balcani e Caucaso – Transeuropa, lo scrittore Božidar Stanišić (clicca sull’immagine per leggere l’articolo).

Kiš, l’Europa e noi

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