di Paolo Baldessarini
30 giugno 2005 , ore 9.50 ” ritorno a casa “
Da poco più di un’ ora siamo in viaggio verso l’ Italia, dopo una breve visita a questo paese, che circa dieci anni fa, veniva tremendamente ferito da un conflitto interno, e che ha visto l’ Europa starsene alla finestra nella maniera più vergognosa e cinica.
In questo momento , la splendida cornice verdeggiante che sta ai lati della strada presenta una visione serena di questo ambiente decisamente sorprendente.
Partiti da Sarajevo con direzione Zenica, ex grande città industriale, questo paesaggio ricorda per certi versi alcuni scorci delle nostre vallate alpine. I nostri sguardi però, incrociano con frequenza anche le bianche e dritte stele dei cimiteri, e stanno lì a ricordarci le lacerazioni subite. In questi intensi cinque giorni in terra bosniaca, abbiamo avuto solo un piccolo assaggio di questo paese.
Pocitelj, Mostar ,Sarajevo e una zona montana hanno destato in noi un forte interesse, ed in alcuni momenti anche sensazioni ed emozioni.
Diciamo quindi che la Bosnia è soprattutto bella da vedere e l’ ospitalità della gente è stata al di sopra di ogni aspettativa. Tante infatti sono state le persone incontrate, ed ognuna di esse ci ha regalato qualcosa della propria esperienza.
Il nostro punto di riferimento è stato Irfan, pittore di Sarajevo, che abbiamo incontrato nella sua bellissima casa di Pocitelj, con sua moglie Miriana e sua madre; la sta ricostruendo lentamente, sasso dopo sasso, visto che le piccole ma splendide case di Pocitelj, sono fatte con i sassi e che rovinosamente sono quasi tutte crollate sotto i colpi impietosi delle granate piovute dal cielo.
In quel primo approccio con lui una cosa risalta su tutte. Nel sorseggiare il nostro primo caffè bosniaco fatto in casa , ci racconta della sua famiglia e di come l’ intreccio etnico che la costituisce non l’ abbia mai scalfita, anzi è sempre stato un punto di forza.
“Questa è la Bosnia” ci ricorda, come a mettere in chiaro che la diversità è un valore se gestito con buonsenso.
Anche l’ incontro con Đevad, custode della casa degli artisti di Pocitelj, è stato importante per noi; sempre disponibile ad ogni nostra richiesta , ci ha fornito utili informazioni relative ai dintorni.
La vicinanza con Mostar ha permesso di godere da subito di questa città e di chi abbiamo incontrato. A volte però certi incontri ti fanno soffrire!
Poco prima di mezzogiorno, quando già il caldo inizia a farsi sentire, nei pressi del mercato notiamo la presenza di ambulanti, forse improvvisati , seduti sul marciapiede lì vicino. Dopo pochi istanti , assistiamo ad una scena che sembra uscire da un film. Una giovane coppia si avvicina e prende posto accanto agli altri venditori di strada. Veste un po’ trasandata: lui poco più che trentenne, lei qualche anno in meno.
La ragazza che lascia intravedere solo il viso e le mani siede subito a terra, mentre lui inizia a deporre sul marciapiede vari oggetti apparentemente usati, quasi come un rituale. Sembra tutto normale, ma è lo sguardo malato di lei che ci colpisce. Quegli occhi assenti , forse si portano appresso ferite lontane. È un quadro dalle tinte forti, quello a cui stiamo assistendo. Rimaniamo lì spettatori pressoché impietriti, quasi increduli per qualche minuto. La ragazza con fare furtivo beve da una bottiglia che tiene nascosta sotto il vestito. Non riusciamo a distogliere l’attenzione da quel volto , da quegli occhi. Un dubbio umanamente ci assale. I nostri pensieri corrono a dieci anni prima, quando con ferocia e brutalità, i soldati infierivano sulle donne uccidendo profondamente la loro dignità.
A malincuore ci portiamo via quelle crude immagini; difficilmente scorderemo quel viso e quegli occhi bisognosi di tanta dolcezza.


Ha lo stomaco magro
Questa giovane sposa
Dovreste farla mangiare
Di più
Ha un brutto sogno da donna
Che non dice a parole
Ma sposta metro per metro (1)
Nel girovagare per il centro, nell’ afa del primo pomeriggio , ci avviciniamo per caso a Ibrahim, giovane guida vestita di bianco.
I suoi occhi chiari parlano da soli.

Sembra uno sguardo ferito il suo ed un po’ alla volta capiamo il perché di questa nostra impressione quasi forzata. Egli infatti ci rivela di essere stato testimone di quando nel 1994 lì vicino, morirono tre giornalisti italiani. Era appena un ragazzino e se non ricordo male, egli stesso rimase colpito alle gambe. È cordiale con noi e ci accompagna a vedere quel luogo in cui è stata messa una targa in loro memoria. Ci dice anche di aver perso molti familiari durante quel periodo. Ecco quindi che riusciamo a farcene una ragione del suo sguardo a volte assente.
La sua forza interiore però gli permette di lavorare e di guidare i passanti a spasso per la città, cosa che fa anche con noi, portandoci a vedere la bella moschea e salendo in cima al minareto per apprezzare Mostar dall’ alto.
I nostri occhi alternano la bellezza delle case e delle strade, alla veduta di quelle ancora squartate.
Li siamo grati per averci dato questa possibilità e cordialmente ci congediamo da lui.

Solo case diroccate,
segnan vie senza nome,
primavere, estati, inverni
di un colore sono ora.
Gente libera si sa’
ma con la voglia di rifare ,
fare case , strade e scuole,
ma ormai tutto è da cambiare. (2)

E’ molto diverso l’ altro giovane che riusciamo a incontrare nei pressi del ” vecchio ponte” rifatto a nuovo, ma che non porta nessuna traccia del conflitto, come se nulla fosse successo.
Nedim, musicista e scrittore, ci dice che vede nei giovani mostarini un po’ di apatia. Ci fa pure presente che forse questo è dovuto al fatto che ora , la città è abitata per una buona parte da gente che viene dalla campagna e quindi non la sente molto sua. Ci invita perciò a conoscere il centro culturale “Abrasevic”, la cui sede è piazzata all’ interno del vecchio stadio in rovina. La vivace attività di questi giovani dentro un rudere di cemento armato crea una contrapposizione molto forte. Visitiamo con curiosità e piacere questa realtà, dove si lavora su proposte che spaziano dalla musica, al cinema, a mostre fotografiche. Dimostrano brio e coraggio i giovani di “Abrasevic” e questo è di buon auspicio.
Nel centro di Mostar abbiamo anche un breve incontro con il capitano Compagnone dell’ Esercito Italiano. Lo avviciniamo con la scusa di fare una foto, parlandogli del nostro progetto fotografico che lui ha dimostrato di apprezzare. Ci dice che le cose vanno discretamente ma anche che la tensione sale quando le varie parti si incontrano:” tra un po’ sarà il decimo anniversario di Srebrenica” butta lì e ci fa capire che temono qualche scontro.
Nel secondo giorno di visita a Mostar purtroppo arriviamo in ritardo all’ appuntamento con Dario Terzic ,giornalista locale e questo ci lascia un po’ di amaro in bocca. Dobbiamo perciò cambiare programma. Ci dirigiamo verso un quartiere in periferia dove viviamo un momento gratificante con i bambini che giocano spensierati nei loro cortili. Sopra le loro teste , nella parte alta del palazzo è ben visibile la traccia di una granata.
Appena ci vedono sono attratti dalle nostre macchine fotografiche e la loro vivacità ci coinvolge. Riusciamo a comunicare un po’ a gesti ,un po’ in inglese.
Le bambine sono molto vispe e simpatiche e fanno quasi a gara per essere protagoniste . L’atmosfera è positiva e ci divertiamo pure noi. Pensiamo a loro come a delle anime salve in un momento in cui la forza brutale dell’uomo ha solo salvato chi ancora non c’era. Resterà questo uno dei momenti più sereni del viaggio.
Non possiamo lasciare Mostar senza aver parlato del suo fiume, la Neretva, che passa sotto il “vecchio ponte” attraversando tutta la città. Il suo colore verde smeraldo risalta subito all’occhio. Le sue calme acque raccolgono a volte l’ immagine ferma di un minareto. Poi man mano svanisce e stupiti rimaniamo ad osservare questo colore cangiante.
Mostar, 28 giugno 2005 ” verso Sarajevo “
La sera precedente abbiamo concordato con Irfan di passare due notti a Sarajevo e lui sempre disponibile troverà per noi un posto per dormire.
Partiamo un po’ sul presto , visto che abbiamo appuntamento con lui prima di mezzogiorno, e dopo con il prof. G.Luca Paciucci, responsabile culturale dell’ Ambasciata d’Italia in Bosnia.
Il viaggio di trasferimento da Mostar a Sarajevo ci mostra un paesaggio molto accogliente. La strada infatti, sale dolcemente e le verdi vallate contadine appagano la nostra vista. Sono ben curate e morbide le loro forme e i frequenti covoni di fieno abbelliscono ancor di più questa terra. Il nostro viaggio prosegue regolare e Sarajevo è sempre più vicina. Questa città, appena dieci anni fa era purtroppo famosa per l’ assedio subito, per i cecchini e per la biblioteca bruciata.
Come previsto incontriamo Irfan all’ Holiday Inn , hotel situato nei pressi del vecchio parlamento, un palazzo abbandonato di venti piani completamente annerito e ancora segnato dalla guerra. Ci dice dove passeremo la notte e ci intratteniamo volentieri con lui in attesa del prof. Paciucci, il quale ci raggiunge da lì a un po’. E’ accompagnato da Anur, giovane fotografo e grafico che negli anni ‘ 90 per ovvi motivi si trasferì temporaneamente a Milano. Esponiamo a loro il nostro progetto, il perché siamo lì. A sua volta Anur, in un italiano molto lineare, ci parla della sua mostra ” Human Condition” che tuttora è esposta presso un centro commerciale. Come avremo poi modo di vedere , è una raccolta di immagini sul consumismo della società attuale e si presenta provocante e riflessiva.
Dimostra di aver le idee chiare questo giovane e dopo una chiacchierata cordiale ci accompagna a vederla. Entriamo in questo mercato dagli spazi angusti e cogliamo subito il suo forte messaggio. E’ chiaro che qui, con i problemi che respira questo popolo , forse non viene recepito fino in fondo. Anur ci fa presente di voler portare tale mostra in Italia attraverso la Coop. Speriamo quindi che questo suo progetto vada in porto.
Il prof. Paciucci ha organizzato inoltre un altro incontro, dimostrando interesse nei nostri confronti. Visitiamo infatti la sede di “Ars Aevi” , associazione che lavora nel campo dell’ arte contemporanea. Siamo accolti da Amila, giovane e brillante coordinatrice che mastica bene l’ inglese. Ci offre da bere e per almeno mezz’ ora parla senza interruzioni. Sono tanti i progetti che espone tra cui anche uno con l’ architetto italiano Renzo Piano. Ogni tanto viene interrotta da Paola e Sara che interloquiscono con disinvoltura in una lingua pure a loro congeniale.
Io resto lì solo spettatore .
Lasciamo soddisfatti “Ars Aevi” e trovato un telefono all’ interno dello stesso palazzo, chiamiamo Cristina Piffer, trentina che lavora per l’ associazione “Tremembè” nel campo del turismo responsabile. Ci dà appuntamento al giorno dopo verso mezzogiorno nei dintorni dell’ Holiday Inn, anticipandoci la possibilità di essere guidati sui monti di Sarajevo.
Sarajevo, 29 giugno 2005
E’ l’ ultimo giorno, e in attesa dell’ escursione pomeridiana , visitiamo la città. Anche qui come a Mostar, notiamo la presenza di molte donne con il capo coperto dal velo , segno della forte presenza islamica in quest’ area dei Balcani.
Sono piacevoli a vedersi questi veli bianchi e colorati, indossati con molta grazia anche dalle ragazze che si confondono tra la folla. Nell’ aria risuona pure il canto del muezzìn che chiama a raccolta i fedeli per la preghiera. E’ una giornata qualunque e rimaniamo sorpresi dai molti passanti che vediamo per strada. Infatti, è un vestito di gente quello che mostra Sarajevo in questa parte della città. Sembra quasi un’ inconscia rivalsa verso quegli anni in cui i cecchini seminavano panico e terrore nelle piazze e nelle strade.
Già, i cecchini, piccoli e miseri uomini che giocavano a fare i duri, appostati come falchi nei piani alti dei palazzi deserti e colpivano spietati ogni figura umana in movimento.
Sarà ancora Irfan ,la sera stessa, a chiarire con la sua efficace essenzialità, che la gente è in strada semplicemente perché non lavora. E’ il segno di una disoccupazione che ,va ricordato, tocca il 40% della popolazione.

Bella la vita dentro un catino bersaglio mobile d’ ogni cecchino
Bella la vita a Sarajevo città
Questa è la favola della viltà (3)

Siamo prossimi alla biblioteca e riteniamo doverosa una visita a questo spazio che seppur chiuso, racchiude tra le pagine dei suoi libri, secoli e secoli di storia e cultura.
E’ chiusa perché durante la guerra molti libri e documenti sono finiti tra le fiamme , presi di mira dall’ esercito serbo che ha così umiliato e offeso la storia in essi contenuta, nonché il suo popolo. Nonostante i lavori in corso , le facciate di questo antico palazzo si presentano in tutta la loro maestosità.

Brucia la biblioteca degli Slavi del sud, europei dei Balcani
Bruciano i libri
Possibili percorsi, le mappe, le memorie, l’aiuto degli altri (4)

Un po’ alla volta ci avviciniamo all’ Holiday Inn per l’ incontro con Cristina Piffer. E’ in compagnia di Rasim e Amela che faranno da guida e interprete sulle montagne di Sarajevo. Lei, in attesa di un bimbo non può venire. Dopo una breve chiacchierata partiamo. Passando per Pale, Amela ci ricorda che questa cittadina è stata la roccaforte del generale Karadzic ( e forse lo è tuttora), latitante dal ’96 e ricercato per crimini di guerra. Dopo un po’ la strada si fa bianca ed inizia a salire fortemente. Attraversiamo vallate e boschi, e nella parte finale incrociamo per la prima volta i cartelli rossi che delimitano i campi minati , ancora presenti a distanza di dieci anni dalla fine della guerra.
Rasim, cinquantenne sociologo disoccupato, ci accompagna a vedere una postazione bosniaca dove si combatteva aspramente. Siamo a 1800 metri e da lì il panorama si presenta interessante. Da questa posizione privilegiata, possiamo apprezzare la ricchezza boschiva di questo paese che sorprende per questa sua peculiarità. Sulla via del ritorno Rasim ci porta a vedere un sito dei Bogomili immerso in un piccolo faggeto , ancora allo stato selvaggio. Infatti, le pietre tombali di questo popolo vissuto tra il 1200 ed il 1500, affiorano solo per un po’ dal terreno e sono in gran parte coperto da muschi, radici e foglie. La speranza di Rasim è che quel luogo diventi quanto prima oggetto di studio. Ci mostra poi la scuola di montagna ora abbandonata, che lui vorrebbe ristrutturare per realizzare un centro di recupero per bambini. Un progetto ambizioso il suo, che dimostra coraggio e voglia di fare. Prima di scendere ci ospita nella sua casetta di montagna, offrendoci yogurt e pita, tutto rigorosamente fatto in casa. Non possiamo che apprezzare e gustare con piacere.
Sarajevo, 30 giugno 2005
Stiamo caricando le ultime valigie, quando in strada incrociamo la signora Zumra che , grazie a Irfan ci ha ospitato a casa sua per due notti . Ha in mano una teglia e ci dice : “Questa è per voi , venite su a fare colazione!” Visto il ritardo siamo un po’ titubanti , ma poi accettiamo il suo cortese invito. La teglia scotta ancora e con sorpresa scopriamo che si è alzata alle sei apposta per noi per fare la pita, tipica pietanza bosniaca a base di formaggio. Ci stupisce la sua generosità, anche perché va ricordato che nelle due notti in cui abbiamo dormito da lei, ci lasciò soli, andandosene a dormire da sua madre. Approfittiamo della pausa per scambiare quattro chiacchiere. Ci racconta di essere disoccupata da dieci lunghi anni e di aver perso il marito a causa della guerra. Venne gravemente ferito e nonostante un ricovero in un ospedale tedesco, non riuscì a sopravvivere.” Adesso è qui sotto” dice ,indicando il cimitero che si scorge dal balcone. E ancora : ” A quel tempo le granate ci entravano in casa e andò completamente distrutta”
La commozione è forte per lei e lo è anche per noi. E’ toccante questa testimonianza che ci arriva diretta al cuore , senza averla cercata.
“Prima ero impiegata in banca ed ora mi vedo costretta a provare a vendere dei quadri per racimolare qualche soldo”.
Ecco così chiarito il mistero di tutte quelle tele sparse per la casa. Le siamo molto grati per la sua umana ospitalità ,e nonostante la partenza credo che la signora Zumra resterà a noi comunque vicina.
Quest’ultima occasione va a completare una serie di incontri da una parte sempre avvincenti , fatta di progetti ,speranze e coraggio , dall’altra fatta da ferite ancora aperte e sanguinanti ,sguardi assenti e tormentati che fanno riaffiorare un passato appena dietro l’ angolo, ancor fin troppo pesante per le spalle della gente bosniaca.
Lasciamo perciò un paese dalle due facce e che assolutamente non va lasciato solo.
A conclusione ringrazio di cuore i compagni di viaggio : Sara , Paola , Guglielmo , Cesare ed Elena , e tutti coloro che hanno reso possibile questa esperienza.
Bibliografia
(1) ” L’ abito della sposa” di Ivano Fossati , dall’ album ” Macramè” ,1996
(2) ” Mostar” di Massimo De Matteis ( Bassapadana), dall’ album “Il millennio”, 1997
(3) (4) ” Cupe Vampe” di Giovanni Lindo Ferretti (C.S.I.), dall’ album “Linea Gotica” , 1996

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