In verde il fiume Una
di Paola Lucchesi
Una è molto amata. Perché, semplicemente, è bellissima.
Ricorda: nelle lingue slave “fiume” è rijeka, reka, reka’, ed e’ femmina….
Dovendo parlare di “lei” (mi è impossibile non farlo al femminile), questa è in assoluto la prima cosa da dire. La gente che vive sulle sue sponde ha un particolare rapporto di passione con la signora di smeraldo, una passione che colpisce per il contrasto con una quotidianità difficile, come quella di questo lungo e deprimente dopoguerra bosniaco, nel quale di solito non c’e’ molto spazio per la poesia. Tuttavia un fondo di romanticismo appassionato nell’animo balcanico c’e’ da sempre, e la Una ha veramente un fascino particolare, grazie alle sue acque eccezionalmente trasparenti e pulite, dagli incredibili riflessi di smeraldo, e alle sue incredibili architetture di roccia che creano chilometri e chilometri di labirinti di cascate ed isole….

Le parole di un innamorato
Per parlare di Una prendiamo a prestito le parole di un uomo che l’ha amata per tutta la vita, il giornalista e scrittore Bosko Marjanovic, fondatore della più antica associazione ecologica dell’ex Jugoslavija, gli Smeraldi della Una (Unski Smaragdi). Dpo una vita lunga e ricca di creatività, la sua anima è volata sulla Una il 23 marzo 2003, ma a noi sono rimasti numerosi scritti, dal singolo slogan a numerosi libri, pieni di passione per la bellezza della natura, delle donne, dei bambini, e della Una, soprattutto.
“Ognuno ha la sua “rijeka”. Può essergli madre sorella e fidanzata. Anch’io ho la mia, di lei sono innamorato perso: la Una. In qualsiasi momento la osserviate, la vedete correre e saltare come una fanciulla, bellezza fra le bellezze, quasi volesse attirare lo sguardo di un corteggiatore, per far sì che non possa più toglierle gli occhi di dosso, che non possa più staccarsi da lei, perché non le piace restare sola. Durante il giorno questa bellezza muta d’abito più volte, indossando una veste ogni volta di colore diverso e ogni volta più bella di quella che si era sfilata. Lo fa perché così vuole tutto quel verde che ha intorno, e la sua acqua dal colore di smeraldo.”
“La Una ha gambe lunghe e snelle – i suoi veloci affluenti – ha tante braccia con le quali abbracciare la bellezza, le sue anse sono fianchi ben disegnati, l’acqua che straborda sull’erba verde ricorda il monte di Venere, le cataratte sono i suoi seni, i suoi occhi i gorghi, le cascatelle le sue sopracciglia, i salici i suoi lunghi capelli, i pesciolini i suoi denti, la cortina d’acqua sotto le grandi cascate è il suo velo, i gamberi le fanno da sandali mentre la “sedra” (*la roccia del fiume, il travertino color salmone che sedimentando forma scogliere e torrioni, veri e propri palazzi di roccia intorno e sotto all’acqua) è il trono sul quale siede come una regina. ”


Dedicato a un aspirante turista responsabile
Se cerchi un turismo sensazionalista, non venire a trovarci: qui non ci sono grandi attrazioni, solo la natura e la gente, la gente e la natura. Puoi trovarti molto bene, al punto di desiderare di non dovertene andare, ma devi esser capace di fermarti, capace di ascoltare. Ascoltare anche il silenzio, molto spesso. Perché alle nostre orecchie drogate da troppo rumore quotidiano, troppa informazione, troppi stimoli, troppo tutto, la semplicità spoglia della vita in piccole città di provincia, in villaggi spersi sulle colline, può arrivare come uno shock.
Per questo è necessario, appunto, fermarsi. Respirare. Vuotare la mente. Riaprire gli occhi e le orecchie. Allora la magia – che qui c’è davvero – può entrarci dentro. Sottile e discreta, ma potentissima.
È un brandello di vita come in “occidente” ormai non c’è più: lenta. Dove la gente, pur nell’angoscia di un presente povero e grigio e di un futuro incerto, trova sempre un po’ di tempo con te per parlare della vita, bere insieme un caffè, raccontarti le sue storie e ascoltare le tue.
Un lusso povero, ma se ci prendi gusto sei finito, non ti stacchi più.
E intorno a te, mentre bevi quel caffè e scambi quelle chiacchiere, una natura non domata e ancora potente e vitale ti entra nel sangue senza che tu te ne accorga.
È l’acqua di smeraldo del fiume? Le foreste fitte e silenziose, appena sfiorate da uno spolverio di casette aggrumate in villaggi? L’aria così pulita che il tuo corpo può avere una crisi di disintossicazione che non riuscirai a identificare subito, soprattutto se normalmente vivi in una grande città? Quel famoso silenzio? Il buio denso della notte quando ti coglie in qualche luogo dove l’illuminazione stradale non c’è piu’, o non c’è mai stata?
Non lo so, dopo tanti anni non ho risposte definitive, né le cerco: preferisco la magia, e la magia deve avere in sé del mistero. Chi è saggio si spoglia della pretesa di spiegare sempre tutto, la lascia sulla soglia di questo mondo apparentemente così semplice e spoglio, in realtà così ricco. Per questo dico, non venire se è per correre disperatamente e affrettatamente dietro a chissà quali obiettivi di “produttività del tempo libero”: quanti musei visitati, quante attrazioni, quanti chilometri macinati, quanti eventi culturali e spettacoli veduti…. Perché qui troverai molto poco, né ti vale la pena di venire per questo. Vieni per respirare, guardarti intorno, ascoltare, svuotarti la mente. A fare un bagno nelle acque della Una: fisico, se è stagione, o semplicemente spirituale. Basterà.

A circa 35 km dalla città di Bihac, lungo la strada che prosegue verso l’altipiano del Grmec, si trova il bivio per Martin Brod. Dopo altri 20 km si arriva ad un villaggio incastonato nella cascata del fiume Una, Martin Brod. Un luogo di straordinaria bellezza che un tempo viveva grazie al lavoro di macinazione delle granaglie: erano più di cento i mulini, praticamente uno per ogni casa del villaggio,ed ora semi abbandonati. A Martin Brod si è avviato un percorso di rinascita attraverso il turismo responsabile. Si può dormire nelle case private e gustare le trote ai ferri da Pero, nella locanda del villaggio.
Informazioni sul territorio
La Una, uno dei maggiori affluenti della Sava, segna per la maggior parte del suo corso la frontiera fra Croazia e Bosnia occidentale, prima nel tratto vicino alla sorgente (presso Donja Suvaja, in territorio croato), una ventina di chilometri a monte del villaggio di Martinbrod, e ancora nel cosiddetto “canyon superiore”, dalle cascate di Strbacki Buk (una sponda bosniaca, l’altra croata) a Lohovo, una decina di chilometri a monte di Bihac, città capoluogo del Cantone Una-Sana. Dopo una settantina di chilometri in territorio interamente bosniaco, la Una di nuovo ha una sponda croata ed una bosniaca, da Dvor (sponda croata) a Bosanski Novi (sponda bosniaca), fino alla confluenza nella Sava a Jasenovac.
Questo carattere di frontiera è un retaggio plurisecolare per la Una, poiché proprio la sua valle ha fatto da linea del fronte di innumerevoli guerre, per non dire veri e propri scontri di civiltà: cerniera della lunga contrapposizione da un lato fra principati slavo-cristiani prima e impero absburgico poi, e dall’altro l’impero ottomano. Per questo proprio in questa regione è particolarmente forte l’anima “mista” della Bosnia, risultato di una complessa stratificazione culturale, sociale, religiosa, tipica delle zone di frontiera.
Oggi il tessuto sociale di questa regione è ancora sconvolto dall’ultima ondata di eventi bellici (quella del 1991-1995), le cui “pulizie etniche” incrociate hanno portato ad un’innaturale omogeneità – zone a prevalenza croata, serba o bosniaca – dei territori oggi marcati dalla triplice frontiera Croazia – Federazione BiH – Republika Srpska (dove le ultime due sono le “entità” componenti della Bosnia emerse dagli accordi di Dayton del 1995).
Si può considerare che del bacino della Una, come zona geografica in senso lato, faccia parte tutto il suo corso di 214 chilometri e almeno una parte del bacino del maggiore affluente, la Sana. In questo modo, nell’ambito Una-Sana è compresa una serie di comuni della Federazione BiH (Drvar, Bihac, Bosanska Krupa, Otoka), della Republika Srpska (Bosanski Novi-Novigrad, Kostajnica, Kozarska Dubica e Prijedor sulla Sana), e della Croazia (Srb-Donij Lapac, Dvor, Hrvatska Kostajnica, Hrvatska Dubica, Jasenovac). Un territorio abbastanza vasto, nel quale vive circa mezzo milione di persone.
Un territorio in crisi, perché comunque già prima del 1991 provincial-rurale, ma anche perché spesso e volentieri in controten-denza politica con i poteri centrali (sia a Zagabria sia a Sarajevo), con una lunga tradizione di emigrazione economica già nei decenni passati. Oggi la disoccupazione è la piaga maggiore, difficile da combattere perché alla chiusura o drastica riduzione della maggior parte delle grandi aziende statali di cui ciascuna garantiva migliaia di posti di lavoro si somma la scarsa propensione all’imprenditoria privata di un certo respiro.
Turismo e agricoltura biologica sono fra i sogni della gente della valle, che sa come in questi settori siano racchiuse le speranze di un futuro migliore. È tutto ancora da fare, però. Le infrastrutture ricettive sono minime (anche se i centri maggiori hanno qualche albergo, mentre ristoranti e bar sono abbondanti), il turismo rurale praticamente inesistente, anche perché l’agricoltura è in uno stato generale di grande abbandono, data la sua scarsa redditività: del resto, come stupirsi che la piccola agricoltura familiare di paesi già poveri e allo sbando riesca a trovare una sua dimensione, quando la maggior parte del budget della ricca Unione Europea da decenni tiene in piedi artificialmente un’agricoltura del tutto deficitaria?
Il turismo responsabile: può veramente aiutare?
Sarà un cammino lungo e difficile, ma vale la pena di intraprenderlo. Perché i suoi effetti benefici non dovrebbero essere solo economici, ma di abbattimento delle barriere di isolamento che imprigionano queste terre. Dopo quasi dieci anni di dopoguerra e aiuti internazionali, un vero scambio culturale non c’è stato, e se si va appena oltre la superficie si scopre che l’incomunicabilità fra mondi e ancora schiacciante. Un discorso lungo e difficile, che non si può sviluppare in una breve presentazione come questa, ma che è bene avere a mente.
E un’ultima provocazione per concludere: proprio lo stile di vita “lento” già citato oggi pone domande scomode su dove stiamo andando, come genere umano. Per chi ha potuto per lunghi anni vivere in entrambi i mondi, confrontarne pregi e difetti, non è affatto scontata la visione nella quale l'”occidente” è il maestro che deve insegnare a questi popoli la via della salvezza.
Abbiamo invitato qui per anni gruppi e singoli non solo dall’Italia, e tutti hanno reagito, spontaneamente, al “fattore umano”, avvertendo a pelle un qualcosa che l'”occidente”, appunto, ha perduto. In altre parole, un viaggio in queste terre apre la possibilità, scomoda e affascinante, di un apprendimento a due direzioni, che però può avvenire solo quando la conoscenza reciproca scende molto più a fondo della superficie.

Condividi su

Ti potrebbe piacere: