La prima cosa che mi colpisce di Belgrado è Vladimir: stiamo passeggiando persi e disorientati nel centro città alla ricerca in extremis di un posto economico dove dormire quando Vladimir arriva in bicicletta e si ferma accanto a noi, fa un cenno di saluto, alza la gamba destra e disarciona la bicicletta che adesso docile riposa tra la sue mani: un gesto invidiabile visti gli anni che si porta. Poi dolcemente in inglese ci spiega che li vicino c’è un confortevole ed economico ostello: il suo lavoro è quello di recuperare clienti per strada, per questo guadagna un euro ad ospite ci dice, sottolineando il suo nome scritto sul flyer che ci lascia. Non perde occasione di farci da Cicerone lungo i viali cittadini, risale abile sulla bici e ci segue pedalando dolcemente. Viene con noi all’ostello e poi scompare.

Lo ritroviamo qualche decina di minuti più tardi quando ancora una volta disorientati cerchiamo un posto dove andare a mangiare un boccone: arriva silenzioso, si ferma con un cenno di saluto, scende dalla bici e sorridente ci dice di aver appena trovato un altro cliente per l’ostello, oggi è riuscito a fare ben 12 euro ed è felice. Ci indica il cammino più corto per il centro indovinando le nostre intenzioni e con un sorriso riscompare tra i viali cittadini spazzati dal vento e dalle luci rosse.

A Belgrado bar e ristoranti sono aperti tutta la notte, sono frequenti i locali dove trovare musica elettronica e giochi di luce, la notte finisce tardi e la giornata inizia presto, tutta la città sembra fremere di un energia interna, mi ricorda molto Berlino (almeno l’immagine che foto e racconti mi hanno dato di Berlino).

Noi però ritorniamo all’ostello non troppo tardi, siamo stanchi dal viaggio ed assetati di visitare la città domani, con la luce del sole.

Durante la giornata incrociamo vecchi palazzi abbandonati ricoperti di murales colorati o in bianco e nero, grandi avenues che si intersecano sopra e sotto ad un ponte di ferro che sembra essere il nodo metallico del groviglio di corsie a più livelli. Ci nascondiamo sotto di esso sovrastati da tonnellate di asfalto, clacson, rumore e confusione.


Foto © Samuel Bregolin.

Incrociamo statue metalliche semi astratte, con indicazioni in solo cirillico, che ci impediscono ancora più della forma inattesa di capirne il contesto. Tutte le strade di Belgrado sono indicate in doppi caratteri: europei e cirillici, in alcune zone noto le scritte in europeo cancellate da un pesante spray nero. Gli ultranazionalisti preferiscono il cirillico? ..forse perché i croati non lo usano.

I pesanti e lenti tram rossi continuano a sferragliare lungo le arterie principali ed uno di questi ci lascia a pochi passi da un mercatino ex-sovietico: qui nelle bancarelle sono in vendita i rimasugli del comunismo, le filigrane originali dell’epoca di Milošević e di Tito vendute in pacchetti completi di tutte le valute.

Poi spillette con falci e martello, fiaschette in alluminio per l’alcool forte, cappelli, borse, giacche, stivali, stemmi, abbigliamento dell’armata rossa, fiammiferi in carosene e alluminio (in dotazione in quegli anni ai soldati dell’armata rossa).

Qui le anticaglie comuniste sembrano essere una giostra per turisti e curiosi.

Gli abitanti di Belgrado sembrano avere prima di tutto voglia di divertirsi, di godere della vita e delle sue opportunità. La mia impressione è che le pesanti conseguenze cadute sui balcani dopo la frantumizzazione della Jugoslavia di Tito siano ancora troppo vicine per permettere una rivalutazione coerente della storia passata.

Dalla stessa architettura della città non sembrano emergere molti elementi comunisti, diversamente da Budapest o da Bucarest dove i Blocs sono decine se non centinaia. Ma stiamo commettendo un errore di valutazione: non abbiamo visitato la parte occidentale della città, oltre la sponda sul Danubio. Lì attorno al palazzo federale comunista si apre un reticolato di strade e quartieri, tutti Bloc, numerati con un sistema sovietico di cui mi sfugge il metodo di numerazione, arrivano fino a 71 comunque.

Riusciamo a scorgerne alcuni mentre a passaggi scivoliamo sull’autostrada, che qui a Belgrado taglia la città. Mi torna il ricordo di un amico pescatore, vicino a Trieste: fu lui a spiegarmi che nella Jugoslavia di Tito gli autostoppisti venivano forniti di un timbro, da stampare sulle cartelle messe a disposizione dei camionisti; ogni autostoppista un timbro, ogni cartella riempita un bonus carburante gratuito. A noi abituati a marciare a piedi sulla corsia di emergenza sembra una buona soluzione.

Oggi però fino a Novi Sad dovremo arrivarci senza timbri, ma forse l’aiuto di qualche camionista non ci mancherà.

Novi Sad.

Novi Sad ci accoglie con un grande concerto, la festa musicale di fine estate riempie la città di note e colori. Ci fermiamo vicini al palco principale che è stato posto di fronte alla cattedrale cattolica, nel mezzo del concerto una nuvola di palloncini bianchI e blu gonfiati ad elio escono da sotto allo stesso creando una cappa sopra al pubblico e poi rapidamente, tra i flash delle macchinette fotografiche, allungarsi lungo le pietre gialle della cattedrale, superarne la torre del campanile ed involarsi alti nel cielo seguendo le direzioni del vento; infine scompaiono altissimi, come costellazione in movimento.

Nell’ attesa che io torni con gli occhi sulla terra il concerto sta finendo e stiamo decidendo di andare a mangiare qualcosa: a Novi Sad tutto il centro cittadino è tappezzato di piccoli ristoranti, take away, pizzerie, gelaterie, self services, lounge bar, da fare invidia a Parigi. Si respira il clima della festa, si sfoggiano gli abiti migliori, i giovani hanno tagli alla moda ed occhiali da sole. Le terrazze esterne dei locali sono attrezzate con acqua vaporizzata e ventilatori per rendere rinfrescante la pausa dalle forti temperature che hanno colpito la città in questi giorni.

Sempre a causa del caldo molti dei cittadini in questi giorni si recano in spiaggia: ce la descrivono come la più grande che si formi lungo tutto il corso del Danubio. Decidiamo di andare anche noi.

Cabine attrezzate all’ingresso, toilette moderne, bar in legno dove decine di famiglie consumano birra e caffè, strutture per la scalata artificiale su parete, mini golf, stand gastronomici sparsi qua e là lungo il grande prato e giardino. Ed infine la spiaggia sul Danubio, oggi le acque sono basse ed hanno creato una piccola isoletta al centro del fiume, dove molti vanno a passeggiare.


Foto: Klovovi – flickr

Mi sento al centro di una forte contraddizione: sulla mia destra il porticciolo dove decine di imbarcazioni lussuose sono parcheggiate, famiglie benestanti sfoggiano la loro ricchezza con un pranzo sul ponte. Giovani atletici in muta da sub sfrecciano sulle loro moto d’acqua tra l’altro sfiorando a tutta velocità le teste di poveri incauti nuotatori. Sulla nostra sinistra ad un centinaio di metri il ponte della libertà, che fu uno dei tre ponti abbattuti dalla NATO nel 1999, verso la fine della guerra in Kosovo. Circa 13 anni fa.

Sotto al ponte delle grandi fotografie ricordano e testimoniano come Novi Sad fu per motivi strategici tagliata da una sola parte del Danubio. Accanto la strada pedonale è illuminata da fari gialli, molti passano sfrecciando con pattini o biciclette da competizione e noi con i nostri asciugamani sulle spalle dobbiamo fare attenzione a ritornare sani e salvi alla macchina.

Ma non è la sola contraddizione di Novi Sad: la fortezza di Petrovaradin che spunta oltre il Danubio ne è testimone: la fortezza fu per molto tempo l’ultimo avamposto asburgico sul confine dell’impero ottomano. Anche allora la situazione non era semplice, ed all’epoca i serbi non avevano una patria. Quella che oggi molto orgogliosamente ostentano a noi visitatori.

Parlando della Serbia qui ci illustrano i più forti sportivi serbi, calciatori e nuotatori. Che se fosse ancora la grande Jugoslavia di Tito vincerebbero ogni competizione. Ci parlano della belle ragazze che fanno girare la testa, ci parlano dei pessimi politicanti che conducono il paese.

Ci dicono che i montenegrini non avrebbero dovuto diventare indipendenti: laggiù abitano molte famiglie serbe, i cognomi sono gli stessi, la cultura è la stessa, la lingua è la stessa. Stessa cosa però non ci dicono dei croati, di cui il solo commento che riusciamo a raccogliere è: “Loro non usano i caratteri cirillici; ma la cultura è la stessa”.

I serbi sembrano porsi molte domande in questi anni, il paese sembra ancora caldo e da forgiare, la confusione degli anni passati comincia a passare. Si comincia ad approfittare dell’economia e del benessere. Ma i serbi sembrano capire che il loro paese non è forte e potente, e che servono soluzioni.

L’impressione è che non siano molti i nostalgici del comunismo qui, ma neppure molti i seguaci della comunità europea. L’impressione è che i serbi vogliano restare indipendenti.

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