Il monastero di Studenica, patrimonio Unesco dal 1986, si staglia maestoso in mezzo ad un’ampia radura tagliata in due dal fiume omonimo; tigli, querce, frassini e faggi circondano il complesso proteggendolo da occhi indiscreti.

Studenica fu fondata nel 1189 da Nemanja, sovrano della Raška (regione situata lungo la valle dell’Ibar il cui nome deriva dall’antica capitale Ras, nei pressi dell’attuale Novi Pazar) e capostipite della dinastia dei re medioevali serbi. Qualche anno prima della sua morte avvenuta nel 1199, Nemanja si diede alla vita religiosa ritirandosi in questo monastero, prima di trasferirsi sul monte Athos dove venne ordinato frate con il nome di Simeone. In seguito San Simeone-Nemanja assieme al figlio San Sava (primo arcivescovo della chiesa autocefala serba) divennero i patroni della Serbia.

Lo splendore del complesso monastico si deve però al figlio di Nemanja, Stefan “prvovenčani” ossia il primo incoronato, poiché fu il primo re serbo ad essere incoronato secondo il rito ortodosso. Stefan – controbilanciando il fervente “orientalismo” del fratello Sava – coltivò per tutta la vita un grande interesse per l’occidente: dopo essersi risposato con una nipote del doge di Venezia, mantenne buoni legami con il Papa (che nel 1217 lo fece incoronare da un suo legato secondo il rito cattolico) e si dimostrò tollerante con i fedeli del suo regno che seguivano la liturgia latina. Nonostante fosse pienamente immersa nella civiltà bizantina – dai riti al canone ecclesiastico sino alle leggi, fortemente ancorate al diritto civile di Bisanzio –, la Serbia dei Nemanjić fu sempre aperta all’Occidente, nel tentativo politico (riuscito per alcuni secoli) di imporre il predominio serbo nei Balcani sfruttando le rivalità tra Roma e Costantinopoli e il declino di Bisanzio in seguito alle crociate del XIII secolo.


Il monastero di Studenica.

Tra gli influssi giunti dall’altra sponda dell’Adriatico, di particolare importanza fu l’azione svolta da architetti, artigiani e artisti provenienti dalle scuole italiane, che contribuirono a forgiare monumenti, sculture decorative e affreschi delle grandi chiese di Žiča, Sopoćani, Gračanica o Dečani. Anche Studenica rappresenta un chiaro esempio di questo incontro e confluenza di stili tra Oriente e Occidente: qui nasce lo stile Raška, punto di riferimento per i successivi duecento anni di architettura nei Balcani, basato sull’incrocio tra lo stile greco-bizantino e quello romanico.

Giotto nei Balcani e gli intagliatori di pietra.

Nel 1204, a seguito del saccheggio di Costantinopoli durante la Quarta Crociata, molti artisti bizantini trovarono rifugio in Serbia alla corte dei Nemanja. Finalmente liberi dai rigidi stili iconografici imposti dalle alte cariche bizantine, nei monasteri serbi poterono esprimere il proprio genio creativo a lungo represso. Gli affreschi presenti all’interno della Chiesa della Vergine sono annoverati tra i punti più alti di questa rinascita artistica, considerati da molti i precursori del Rinascimento d’Oriente. Mentre ammiriamo l’Ultima Cena situata nella parte centrale del tempio Luca si ricorda di uno dei primi viaggi organizzati in Serbia da Viaggiare i Balcani in collaborazione con l’associazione Sodalis e il Tavolo Trentino con Kraljevo: “del gruppo di turisti faceva parte anche un docente di Storia dell’arte, penso dell’università di Venezia. Quando lo portammo qui a Studenica, rimase talmente colpito da questi affreschi che all’uscita dalla chiesa mi disse: ‘ma questo è Giotto centocinquant’anni prima di Giotto!’ ”. La lunga tavolata, con le sedie vuote ai margini in segno di apertura alla comunità dei fedeli e ricolma di frutta e verdure di ogni tipo riporta ancora una volta a Bisanzio, laddove l’iconografia cattolica raffigura sempre una tavola bandita unicamente di pane e vino, simboli del rito eucaristico.


L’affresco della crocifissione di Cristo, presente all’interno della
chiesa della Vergine.

Nella chiesa della Vergine – parte del complesso monastico assieme alla chiesa Reale (che ospita affreschi di Michele Astrapas e Eutychios, due artisti greci di Tessalonica ai quali tra la fine del ‘300 e l’inizio del ‘400 i regnanti serbi, oramai sotto il controllo ottomano, avevano commissionato numerosi lavori tra Serbia e Macedonia), la piccola chiesa di San Nikola, il refettorio del XIII secolo e una foresteria dove è possibile pernottare la notte in compagnia dei monaci – sono conservate anche le spoglie del re Stefan e dei suoi genitori, Nemanja ed Ana. Il legame tra la dinastia regnante e la Chiesa fu sempre molto forte: a partire da Nemanja il modello di vita di tutti i regnanti, quantunque impostato sull’idealtipo del condottiero militare, fu permeato dallo spirito monastico, che implicava una prossimità e dipendenza reciproca tra vita terrena e ultraterrena. Lazar ci racconta che “il sarcofago di Stefan è spesso uscito dalle mura di questa chiesa, viaggiando al seguito degli eserciti e i destini del popolo serbo: anche durante le guerre balcaniche, un ufficiale dell’esercito se lo portava sul campo di battaglia come amuleto e portafortuna”.

Un altro elemento che rende l’arte di Studenica (e più in generale dello stile Raška) pressoché unica in tutto il mondo ortodosso sono gli elementi scultorei, laddove le uniche decorazioni ammesse erano gli affreschi su muro. Forse la ragione di questo allontanamento dai canoni decorativi classici si cela nella lunga tradizione di intagliatori di pietra (specialmente marmo) presente nella zona, che ha reso possibile la costruzione di gran parte degli edifici e del muro di cinta del monastero. Lazar ci parla della famiglia Kandić, che da generazioni svolge questo mestiere e potrebbe essere coinvolta all’interno del percorso eco-museale in quanto custode di un antico sapere da valorizzare e preservare. Sempre da un punto di vista storico-culturale, questo luogo è di importanza cruciale poiché fu sede della prima scuola pubblica di pittura di icone, nonché del primo ospedale “moderno” suddiviso per reparti, dalla chirurgia alla pediatria e anestesia. Per questo l’ospedale di Kraljevo si chiama Studenica, in onore del suo vecchio antenato.

Lasciti ottomani lungo la strada dell’acqua.

Put vode, la strada dell’acqua. Così è stato chiamato il progetto di valorizzazione territoriale e turismo responsabile attivo da diversi anni nella valle dell’Ibar, stimolato e in seguito sostenuto dall’associazione Sodalis in collaborazione con il Tavolo Trentino con Kraljevo. La ragione è semplice: l’acqua è presenza costante di questi luoghi, dal fiume Ibar ai suoi numerosi affluenti, i laghi alpini, e soprattutto le terme e le sorgenti minerali a cui gli abitanti del luogo attribuiscono leggendarie proprietà curative.
Dopo aver lasciato Studenica, ci fermiamo a visitare la Josanica Banja, un vecchio hamam ancora funzionante sebbene sia attualmente usato dai contadini della zona che vengono a darsi una rinfrescata al termine della giornata di lavoro nei campi di cereali che puntellano le colline circostanti. Lazar mi parla di un progetto di restauro promosso dalla municipalità di Raška, purtroppo bloccato da alcune difficoltà burocratiche: “l’hamam è sotto la protezione dell’Istituto nazionale per la tutela dei beni culturali. Questo significa che la municipalità dovrà pagare direttamente gli architetti e i restauratori che verranno da Belgrado, non prima però di aver attraversato un lungo e costoso – sia in termini di tempo che di denaro – iter burocratico. Il paradosso però è un altro: questi istituti, sia quello nazionale che le diverse sedi regionali, sono istituzioni pubbliche, finanziate dallo Stato e dalle municipalità. Ovviamente nei loro programmi sono previste attività di questo tipo come la ristrutturazione e ricostruzione di antichi siti di interesse nazionale. Tuttavia, se una municipalità vuole operare su siti che non rientrano tra le priorità programmatiche dell’istituto, deve pagare. Qui subentra il paradosso: perché una municipalità, quindi un’istituzione pubblica, deve pagare un altro ente pubblico che oltretutto è finanziato dalle municipalità stesse? Si giunge così a veri e propri blocchi normativi e bracci di ferro tra le municipalità e l’istituto per la protezione dei beni culturali, che al contrario dovrebbero lavorare in sinergia spinti dal medesimo interesse per il bene comune. Un altro esempio è la fortezza di Maglić: dal momento che i progetti di restauro possono essere fatti solo dall’istituto regionale per la tutela dei beni culturali, quest’ultimo si è sentito in diritto di avanzare la richiesta di circa cinquemila euro alla municipalità di Kraljevo, la quale si è opposta in quanto è già tra i finanziatori dell’istituto.. a pagare come sempre è il patrimonio storico-culturale, visto che molti siti rimangono abbandonati al loro destino di lento e inesorabile degrado”.


L’hamam Josanica Banja.

La visita dell’hamam è una buona introduzione all’ultima tappa del nostro viaggio-studio: Novi Pazar, la piccola Sarajevo della Serbia sud-occidentale, con il suo variegato tessuto etnico-religioso – accanto alla maggioranza bosgnacco-musulmana convivono da secoli serbi-ortodossi, e poi gorani, macedoni, kosovaro-albanesi, montenegrini – è la metafora perfetta di un ecomuseo ad alta complessità cognitiva, palcoscenico su cui schegge di innumerevoli epoche si accumulano strato su strato, segno su segno, frammento su frammento, costruendo una ricchezza che, nel momento in cui viene riconosciuta, può essere letta e valorizzata. Il tempo a disposizione è purtroppo poco, dopo una breve camminata nella čaršija in compagnia del direttore dell’APT cittadino e una sosta in kafana per uno spuntino a base di ćevapi si risale in macchina per tornare a Kraljevo.

Il tragitto sarà segnato da rade parole e sguardi persi nelle regioni della propria mappa di comunità, ancora opache e indefinite. Con l’aiuto di Adriana, in futuro si dovrà fare una sintesi dei numerosi frammenti raccolti, l’intreccio di narrazioni, memorie e valori… tracciando confini di significati condivisi all’interno dei quali viaggiare.

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