Mentre ovunque le statue comuniste sono state distrutte nell’89, alla caduta dell’Unione Sovietica, a Budapest sono state conservate: siamo al Memento park nell’estrema periferia del ventiduesimo distretto cittadino. Enormi soldati dell`armata rossa rigidi e severi in ferro di otto metri, saggi disinvolti e compiacenti busti di Lenin in marmo rosa e forti lavoratori ed operai che sventolano bandiere rosse, si stringono la mano o osservano con fede la realta` circostante. Il più grande di questi con i suoi otto metri di altezza impera nella sua posizione di corsa sul fondo del parco.

Statue che é difficile capire, le linee forti, decise e perfette non lasciano possibilità di compromesso, ma il loro significato non è di facile interpretazione. Sono inquietanti ad una prima vista, la tensione che scaturisce dalla forte ortodossia quasi toglie il fiato, ma quello che comunicavano più di vent’anni fa forse era diverso. Ce lo spiega Dori, la responsabile del parco: “In realtà il messaggio è di protezione, per il lavoratore, l’operaio, l’uomo comune queste statue dovevano rappresentare ed esaltare la loro forza collettiva, che sarebbe continuata ad essere stata privilegiata dal governo”.

Foto © Samuel Bregolin

Dori ci spiega che diversamente che in altre capitali di Stati sotto l’influenza sovietica, quando il regime è decaduto qui a Budapest si crearono diverse correnti di pensiero: c’era chi voleva semplicemente distruggere tutto e passare rapidamente oltre, chi invece incurante della scomparsa del comunismo preferiva conservare tutto così com’era, quale messaggio che gli ungheresi avrebbero continuato a fare la loro vita, come se nulla fosse; vinse chi proponeva di non distruggerle ma di non conservarle neppure nel centro cittadino, sarebbe bastato portarle fuori città, in periferia. Questo avrebbe permesso di conservare un pezzo della storia ungherese ed al contempo di permettere alla città di costruire i suoi nuovi equilibri.

Quello che successe a Budapest e in Ungheria fu comunque molto diverso dal resto dell’Europa orientale dove nessun dialogo fu aperto: molto semplicemente, la foga popolare scese in strada e sradicò con violenza i simboli della dittatura.

Forse gli ungheresi, reduci della quasi mancata rivoluzione del ’56 vissero diversamente gli anni del comunismo, forse abituati da secoli a lasciar passare poteri e governi differenti, dagli ottomani ai nazisti, hanno sviluppato la capacità di lasciarsi conquistare, flessibili e pneumatici, senza perdere la loro identità: così come l’acqua dentro a recipienti diversi conserva il suo volume.
Il regime sembra non aver lasciato tracce prepotenti sugli ungheresi di oggi, quasi fosse una bolla di sapone che scoppiando scompare. Il ricordo di quello che è stato è vivido nella mente di ogni cittadino, fosse anche solo per l’educazione nei licei sovietici; ma oggi l’argomento non è più di attualità: è semplicemente storia. Sono la comunità europea e la sua crisi economica a far riflettere di più, le soluzioni da trovare e forse ancora la voglia di poter approfittare di una individualità personale che per decenni è stata negata.

“Qualche nostalgico viene al parco di tanto in tanto”, continua Dori, ” per lo più anziani, che forse faticano a riconoscere il mondo che ora li circonda, così diverso e così estraneo. Probabilmente rimpiangono quella sensazione di protezione e sicurezza che il comunismo dava loro”.

In Ungheria quindi il sistema sovietico sembra essere solo un retaggio del passato, del quale non si ha molta voglia di parlare, e del quale ci si vergogna anche un pò.

Uscendo dalla città sono i campi di girasole e di mais a ricoprire le immense pianure dell’Ungheria orientale, che veloce si muove su di una tangenziale periferica nel mezzo di un cielo grigio azzurro costellato da pigre e rade nuvole biancastre: in direzione Romania.

Foto © Camilla de Maffei

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