Serbia e Belgrado a noi! Questo lo slogan scandito nei giorni antecedenti il viaggio da Tiziana, abituale viaggiatrice balcanica, e dalla sottoscritta. Già, perchè ad un mese circa dalla partenza, l’unica certezza era rappresentata dall’itinerario proposto da Leonardo e dalla volontà di varcare il confine serbo senza decolli e atterraggi. Lo slogan, ripetuto come un mantra, sembra portare bene: c’è un autobus di linea che collega con facilità il nord Italia alla Serbia e così l’ultimo lunedì di maggio, assieme a Leonardo e ad altri due compagni di viaggio, ci “imbarchiamo” sul pullman che di lì a una decina di ore ci scaricherà direttamente nella capitale serba.

Si parte, Serbia e Belgrado a noi!

Il viaggio scorre tranquillo: le luci del pullman si abbassano, le chiacchiere si diradano al sopraggiungere della notte, i sedili si reclinano di quel poco che si può, le frontiere si oltrepassano senza intoppi e le soste negli autogrill cadenzano il percorso. L’alba ci coglie già nei pressi di Belgrado, i sedili risalgono e le chiacchiere riprendono. In una mezzora l’autobus termina la corsa di fronte ai giardini pubblici dove, più o meno un anno addietro, erano accampati i migranti provenienti dalle rotte balcaniche. Fa un certo effetto vederli ora: gli spazi sembrano quasi smisurati mentre la memoria rincorre a ritroso le immagini dei prati coperti da un’umanità in fuga. La stanchezza accentua la tristezza di queste visioni. Poche centinaia di metri e la sobria facciata dell’hotel Prag si erge davanti a noi.

Colazione, doccia, un po’ di riposo e si riparte come nuovi nel prologo di questo viaggio. Passiamo da una visita al mercato locale ad una passeggiata nella via dello Shopping. Il nostro sparuto gruppetto si disperde e poi si ritrova per una visita al museo di Ivo Andric, ospitato in un’anonima palazzina dalla sagoma rotondeggiante nei pressi del Parlamento. Nessuna insegna ad indicarlo, solo una statua nel parco antistante ne fa presagire la vicinanza. Chiediamo conferma a un abitante del palazzo incontrato sulle scale esterne. “Sì, il museo è qui al primo piano. Suonate questo citofono.” Ci ritroviamo in un androne buio e silenzioso, prendiamo i gradini che girano attorno a un ascensore d’epoca ingabbiato nella tromba delle scale e seguiamo la luce che arriva da una porta aperta.

Un custode cordiale ci accoglie e ci introduce in quella che fu la residenza belgradese di Andric dal 1958. A parte la stanza dove sono raccolti oggetti e cimeli appartenuti allo scrittore – curiosa la divisa indossata nella cerimonia di assegnazione del Nobel in bella vista su un manichino – il resto dell’appartamento è rimasto pressoché immutato. Le librerie tappezzano molti muri della casa mentre nella sala si trovano ancora la radio ascoltata da Andric e i divani sui quali lo scrittore sedeva in compagnia della moglie Milica. Ma il locale che intriga di più è lo studio/rifugio dove è conservata parte della sua biblioteca e lo scrittoio in legno scuro: la penna di Andric è ancora lì, assieme ad un pupazzetto di Calimero, unico vezzo fra tanta sobrietà.

All’interno della casa-museo

Indugiamo nell’appartamento e il custode comincia a raccontare aneddoti. Fra i tanti spicca quello del visitatore straniero che ogni anno torna a far visita al Museo, osservando a lungo in silenzio lo studio dallo stipite della porta (l’ingresso nello studio è off-limits, un cordone che funge da transenna ne impedisce l’ingresso) per poi andarsene. La sensazione di mente ovattata che ci accompagna all’uscita si infrange ben presto nel caldo del pomeriggio belgradese. Ci addentriamo nei viali laterali per godere dell’ombra degli alberi mentre Leonardo si avventura fra le stradine alla ricerca del museo dell’automobile. A seguire tempo libero a disposizione per il futile che consumiamo in un febbrile dentro e fuori dai negozi con successivo ristoro in un caffé letterario nei pressi di Piazza della Repubblica.

Si torna in albergo per una sistemata e poi via di nuovo verso una trattoria nei pressi dell’orto botanico. Attraversiamo Belgrado nella luce che segue il tramonto e precede la notte, quando le luci di lampioni ed edifici appaiono ancora smorzate e addolciscono le sagome imponenti del Parlamento e dei palazzi vicini. Affamati consumiamo a tempo di record la cena a base di cevapcici, raznici, cetrioli, pomodori e cipolla. Il ritorno in albergo sancisce la fine del prologo al viaggio: il giorno successivo il resto del gruppo arriverà a Belgrado e il tour partirà ufficialmente.


Secondo giorno

La giornata si avvia lenta per noi viaggiatori d’anticipo. Consci dei ritmi frenetici che ci aspetteranno, decidiamo di prendercela comoda. Al nostro arrivo nella sala della colazione il personale è prossimo a radunare stoviglie e cibarie, ma ci invita a restare per tutto il tempo a noi necessario. Usciamo di lì a una mezzora e, prima di spostarci, ciondoliamo lungo la via dell’albergo: molti i negozi di bricolage che espongono in vetrina tempere, pennelli, tele e tutto l’occorrente per la pittura che deduciamo essere uno degli hobbies preferiti dai belgradesi.

È l’ora di pranzo quando arriviamo in centro, le fontane sono invase da ragazzi in festa per la fine dell’anno scolastico nel sole caldo del mezzogiorno. La visione trasmette ottimismo e sollievo, ma un rapido flashback ci porta a considerare che i più grandi sono probabilmente figli della generazione che il conflitto lo ha vissuto sulla propria pelle, in un periodo storico in cui il vivere l’adolescenza veniva pesantemente condizionato dalla tragicità degli eventi. Un’occhiata all’orologio ed è già ora di ritornare all’albergo per riunirsi ai nuovi compagni di viaggio. Giusto il tempo per le presentazioni e si riparte tutti assieme di nuovo verso la Piazza della Repubblica. L’incontro con la guida è fissato sotto la statua di Mihailo III Obrenovic.

Branislav, la guida, è un signore di mezza età dall’aria professionale che parla un italiano pressoché perfetto dal leggero accento meridionale e ricorda vagamente un conduttore televisivo. Branislav ci conduce verso Kosancicev venac, l’antico quartiere serbo in epoca ottomana. Il quartiere mantiene intatta un’atmosfera retrò e, fra le facciate delle case in disarmo, trovano posto vinerie, caffè e gallerie d’arte dall’aria vagamente bohemien. Non risulta granché agevole camminare sull’acciottolato sconnesso di epoca turca di cui è lastricato il quartiere, eppure questo ne accresce il fascino senza tempo. Dopo un’occhiata al Danubio e alle sue rive proprio sotto la collina, ci muoviamo verso la cattedrale ortodossa di San Michele, la Saborna crkva. Il sobrio impianto neoclassico è ingentilito dal parco che la circonda nel quale trovano posto decine di cespugli di rose fiorite a contrastare il cielo plumbeo che minaccia pioggia. Proprio di fronte alla Cattedrale sorge la sede del Patriarcato ortodosso con il suo alternarsi di cupole ed archi. Siamo già avanti di qualche decina di metri sul tragitto verso la fortezza, quando il suono delle campane richiama la nostra attenzione: l’anziano Patriarca sta attraversando la strada per entrare nella cattedrale, lo osserviamo salire le scale e sparire all’interno. Colpisce la sua figura esile racchiusa nel mantello nero, la lunga barba grigia e l’andatura un po’ malferma ma decisa.

Lo scenario cambia decisamente sulla collina antistante la fortezza: una lunga serie di immagini ricorda al visitatore la realizzazione del gran numero di opere portate avanti grazie alla partnership fra la Serbia e l’Unione Europea. Sono i giorni che precedono la “Brexit” e viene da pensare a chi, forse, se ne andrà e a chi, probabilmente, gradirebbe entrare. Fra le mura e i bastioni risuonano i racconti della guida, in particolare quello legato alla posa della statua del vincitore – costruita per celebrare la vittoria contro l’Impero austro-ungarico nella prima guerra mondiale – che pare avesse procurato tanto scandalo per via delle sua nudità e per gli attributi in bella vista, a dire il vero nemmeno così pronunciati. L’arrivo del temporale accelera le spiegazioni, salutato Branislav il passo si fa più svelto per arrivare in albergo prima dell’avvio del diluvio, ma la tentazione di fermarsi ad acquistare souvenirs ha il sopravvento e così l’acquazzone coglie alcuni di noi nel parco di Kalemegdan.

Rientrare in albergo si rivela impresa ardua e quindi ripariamo in uno dei tanti caffé lungo Kneza Mihaila, la via dello shopping. Bagnati come pulcini ci consoliamo con tazze di tisane fumanti, confusi fra gli studenti in festa dalla mattina. Le luci soffuse e il sottofondo di musica globalizzata accompagnano il “riordino del souvenir”, che vede un primo monitoraggio della neonata collezione di magneti belgradesi di Tiziana! Raggiungiamo il ristorante sotto un acquazzone tenace, schivando pozzanghere e riparandoci sotto gli ombrelli acquistati da venditori ambulanti, comparsi agli angoli delle strade alle prime gocce di pioggia.

La cena si tiene presso il ristorante Fresca, membri del locale Convivium Slow Food “Dorćol”, dove, fra una portata e l’altra, il titolare si profonde in orgogliose spiegazioni tradotte in italiano da Leonardo. Il tratto di strada dal ristorante all’albergo e l’aria fresca che segue il temporale si riveleranno provvidenziali per l’avvio di una digestione piuttosto impegnativa.

(Continua)

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