di Susanna Ronconi. La giornata di viaggio dalla Bucovina verso Ivesti, una traversata della Moldavia, è faticosa, un lungo viaggio di trasferimento, interrotto da uno sguardo lanciato sulla città di Iasi. Faccio carte false per una visita al museo etnografico (finalmente!) ma sbatto contro un giorno di chiusura. Intravediamo una città gradevole, una chiesa gotica, proviamo una sosta nel parco della città, ma troviamo transenne e gru e il cartellone che illustra un progetto avveniristico per un centro cultural-convegnistico alla Renzo Piano, che si appoggerà al grande palazzo neogotico della Cultura. Niente Iasi. Si riparte, per approdare a un altro momento on the road, un picnic con sottofondo di TIR nel luogo più metafisico del viaggio. E’ una piazzola verde per soste e spuntini, che si apre su un bosco fitto, è costellata di rifiuti a mucchi, ha un tavolo con le panchine e due statue di pietra che guardano il nastro d’asfalto e danno le spalle al bosco. Così, come una scenografia un po’ metafisica. Una porta un mazzo di spighe e un falcetto, a mo’ di mietitrice sovietica da piano quinquennale, l’altra, più morbida, un cesto di grappoli d’uva. Stanno lì, ascoltano il rombo dei TIR, presidiano le bottiglie di plastica buttate sul prato, guardano verso sud. Noi discutiamo se sia più efficace, contro quelli che sporcano i prati, la pedagogia della repressione o quella del lento convincimento educativo, non siamo d’accordo e litighiamo un po’, ma con scarsa veemenza. Intanto, Gabriella trova un fazzoletto di erba senza rumenta e si mette a leggere sotto le mietitrice. Mangiamo i panini che ci siamo fatti a casa di Silvia con tutto quel ben di dio che c’era per colazione.

Scendendo attraversiamo una Moldavia via via sempre più piana, fino a perdere i suoi confini in un infinito giallo-stoppie di grano, cavalli sparsi nei campi come una manciata gettata a caso nel vento. Di tanto in tanto, i villaggi a nastro sulla strada. C’è aspettativa, per Ivesti, il villaggio dei rom. Da noi impazza il delirio securitario, impronte, campi rasi al suolo, razzismo a piene mani, il bel paese sembra aver trovato il suo “nemico perfetto” su cui concentrare il nostro moderno malessere. A bordo si leggono pagine sulla loro storia, della lontana terra di provenienza, l’India, e della schiavitù fin in tempi recenti, venduti come animali, corpi senz’anima messi al lavoro. Io sono reduce da un viaggio a Sofia, in Bulgaria, dove loro sono tanti, una minoranza “vera” , eppure stanno chiusi in quartieri ghetto dai condomini cadenti, i cortili incolti e sporchi, una vita sociale dura e degradata, tradizioni immobili che cortocircuitano con la modernità post-tutto e la cultura dell’arrembaggio del post comunismo. Però almeno il regime aveva fatto dei condomini per loro, avevano detto i miei compagni, mica come da noi. E i capifamiglia lavoravano tutti nelle fabbriche. Certo, le più schifose, le prime ad essere chiuse con l’arrivo del mercato, e adesso nessuno più lavora. Una specie di modello inglese alla buona, aveva detto qualcuno: non vi integrate, non vi chiediamo niente, statevene nei vostri quartieri, a patto che rispettiate le regole. Sì, però dopo l’89 tutto è scattato indietro come una molla, il pregiudizio e i conflitti secolari hanno radici profonde, le fabbriche dello stato e i condomini di cartongesso, no. Ero andata a visitare un drop-in per consumatori di eroina, per imparare, anche da noi adesso ci sono giovani rom che si fanno. Ho trovato due stanzette in uno dei condomini a pezzi, però colorate e ben tenute, e quattro operatori pagati un cazzo su questa barricata sociale, che davano siringhe pulite, offrivano (inutilmente) preservativi, facevano medicazioni e colloqui con ragazzini poco più che bimbi. Sarebbe utile il metadone, dicono. Ma perché, non c’è? dicono i nostri occhi allibiti. Sì, ci sarebbe, ma adesso se lo devono comprare loro, non lo passano più gratuitamente. Ce lo vediamo un ragazzino dipendente di sedici anni con due soldi in mano che deve decidere tra la roba e il farmaco. Il giorno dopo mi son trovata con uno sparuto gruppo di consumatori organizzati a fare una colletta pubblica per l’acquisto del metadone. Gioie della privatizzazione.
E allora, dopo Torino e Milano e Roma e la Bulgaria, sono molto curiosa di vedere come se la passano i rom romeni. Mi son fatta un’idea di tolleranza e di un villaggio di case di legno colorate che vive con dignità, magari col cavallo legato fuori. Ne abbiamo visti molti di rom sui carri, nella campagna. Perciò poi lo spiazzamento è davvero grande. Loro, a Ivesti, hanno una strada né bella né brutta, un po’ fuori dal paese, lungo la quale si snodano le case. Le case sono fantastiche, sono palazzi a volte enormi, tutti intarsiati e decorati di cose luccicanti, con dei tetti di metallo a pagoda, un po’ orientali un po’ indiani, con punte aguzze, pinnacoli, piccoli campanili svettanti. Alcune sono palazzi forse da decine e decine di stanze. Siamo frastornati: ben ci sta, così impariamo ad avere aspettative truccate da quello che abbiamo creduto di sapere, di loro. Loro, sono proprio loro: i vestiti delle donne, gli atteggiamenti degli uomini, i bambini dagli occhi sfrontati e intelligenti, sono sempre gli stessi, in ogni angolo del mondo. Qui curano la loro via con grande dispendio di scope e secchi e ramazze, perché sul marciapiede non vi sia nemmeno un granello fuori posto. Le donne stanno sedute sulla via, sulle panchine, sotto i tettucci che coprono gli ingressi delle loro case favolose. Ne visitiamo una, George lo chiede a un giovane uomo che sta sulla porta, non è la sua casa, è quella del figlio di dieci anni che si è sposato con una ragazzina di dodici. Stomaco chiuso: rispettare sì, accettare no, soprattutto le culture patriarcali, su cui non mi concedo buonismi. Lei è piccola e tenera, bella, ed anche orgogliosa della sua casa. Ne avrai di strada da fare, bambina, penso. Gli sposi piccoli hanno una casa grande, marmi e saloni, e un bagno grande come casa mia. Sul soffitto, lampadari e abbellimenti a forma di dollaro e di euro, colorati di colori acidi, verde, arancio, fucsia. I soldi, come “la roba” del Verga, dei nostri vecchi contadini. La roba, come un secolo fa. L’oro, come illusione di una ricchezza che si può “toccare”, una sicurezza e un vanto, a confronto con l’impalpabile evanescenza virtuale delle azioni e delle borse. Renato e Maria Grazia avevano delle caramelle, pensavamo ai bimbi rom assiepati attorno ai noi, quando si dice le aspettative sbagliate. Qualche caramella va comunque, i bambini sono bambini. Facciamo una foto con un gruppo di donne e intanto ci accorgiamo che qualcuno di loro sta fotografando noi. Stupendo, ben ci sta.

Nel gruppo serpeggia disagio, anche contrarietà: ma come, noi che ci preoccupiamo tanto e invece e la fonte di tanta ricchezza? Quali circuiti di uno stato in smantellamento saranno stati intercettati? Con quale legalità? Vederne alcuni “ricchi” stona, non tornano i conti. Ognuno risponde allo spiazzamento a modo suo. A me viene da ridere per una strana allegria, mi fa allegria mettere queste case fantastiche di fronte al campo di strada dell’Arrivore a Torino, al suo fango, al suo schifo. Mi fa allegria questo ostentare la rivincita sugli schiavisti, sul mondo. Certo un po’ all’inglese: state qui e non vi mischiate. Però in una reggia da fiaba. E mi fa allegria anche pensare a certi dibattiti: loro stanno meglio nei campi, figurati, in un alloggio normale starebbero malissimo, non è la loro cultura. Eccole, le case che a loro piacciono, se solo possono. Ecco un vero viaggio, che è tale solo se spiazza almeno un po’, se non conferma proprio tutto ciò che già sapevamo.
Proseguiamo per Brashov, dove arriveremo la mattina seguente. La notte si passa on the road, al motel di Sophia, eccola un’altra donna che sa quello che vuole, vissuta in Italia, si è portata l’uomo qui e ha messo su questa impresa, a Hanu Monachi, luogo di cui vediamo solo un gran via vai di carretti dalla campagna e un bel po’ di TIR. Motel, ristorante, bar, serate per i giovani con birra e musica. Fa anche matrimoni, da me vengono anche i rom, dice, sono l’unica che li prende, metto a tavola anche cinquecento persone. Non ne dubito, con quegli occhi e quel modo di fare, anche di più. Mentre il tramonto diventa viola e dal balcone della camera un novello Hopper romeno dipinge la sua strada grigia, i suoi camion e il suo solitario camionista che fuma una sigaretta appoggiato a un palo della luce, giunge dal bagno l’urlo di Gabriella, che si è chiusa dentro e la porta difettosa la imprigiona. Agitazione poi la vigorosa spallata di Cinzia la libera (dovremo dirlo a Sophia, si rischia di stare in quel di Hanu Monachi per giorni) In bagno c’è anche un tombino, dove defluisce l’acqua del lavandino e della doccia, nulla di che, ma non è coperto e c’è qualcosa di inquietante che gorgoglia sul fondo. Immaginiamo un condotto dal tombino di Sophia alla miniera di Praid, qualcosa che ci inghiotte e ci scaraventa nell’antro post-catastrofe dove ciò che resta dell’umanità ha trovato rifugio. E’ uno di quei momenti in cui si torna al liceo, quando nessuna cosa al mondo riuscirebbe a bloccare un riso incontrollato e senza senso. A noi tre pace stare in camera insieme proprio per questo.
Hanu Monachi è anche il luogo dove incontriamo Elisa e Traiano, sì, proprio, un nome impegnativo per un uomo vivace che ride volentieri e che suona e canta con George. Elisa è la moglie di George, bella, feeling immediato, bella voce, repertorio italiano e romeno della tradizione popolare, suonano per noi e per un gruppo rumoroso di ragazzi del posto che trinca birra con ritmo impressionante. Ci sono quasi solo maschi, qui, da Sophia, ma dove stanno tutte queste donne che tengono su il paese? Noi non siamo all’altezza, siamo stanche e non ci lanciamo, ma ascoltiamo con piacere la serata in nostro onore. A una canzone romena seguono sguardi ridenti e ammiccanti dei ragazzi, Alessandro si preoccupa, chissà che cosa dice, ‚Äòsta canzone e loro? ah, dice poi Elisa, a me non piace, è una canzone pornografica. La serata finisce in una stanchezza morbida, lo spegnersi di un giorno lungo.
Verso Brashov, tornano i boschi, un orizzonte dolce. Però abbiamo poco tempo, solo uno sguardo alla piazza di nuovo tedesca, seduti a un tavolo davanti a torta e birra, poi un giro attorno alla “chiesa nera”, e la scritta sulla collina come quella di Hollywood. Questa è la città di Stalin, e un tempo la collina era tosata a dovere per far risaltare il suo nome all’orizzonte. Ora la strada è in salita, serpeggia tra boschi e villaggi, è montagna, pini e verde intenso. Puntiamo al castello di Bran, detto di Dracula anche se lui, quello vero, Vlad Tepes, ci è passato di straforo. Il castello è bello, il suo profilo si staglia imponente contro un cielo annuvolato, purtroppo è stato molto rimaneggiato, nei primi del novecento, perdendo un po’ della sua cupa bellezza, addolcendola. Una guida ci accompagna, ci tengono molto anche qui a parlar bene di Vlad, insomma, questo Stoker ha fatto uno sgarbo ai romeni creando il suo personaggio sanguinario, e sembrano tutti un po’ offesi. Del resto, sarebbe come se qualcuno avesse fatto di Lorenzo de Medici un serial killer di bambini. Non sarebbe piaciuto nemmeno a noi. Pur comprendendo questo punto di vista, restiamo perplessi quando ci viene spiegato che era in realtà un nobile che governava con polso, comminando pene severe, anche impalare il reo, ma allora si sarebbe potuto tranquillamente lasciare fuori una borsa piena di soldi, provate a farlo adesso beh, proporre di ripristinare il palo ci è sembrato un po’ forte, lo sarebbe anche nell’attuale dibattito italiano, che è tutto dire. Con tutto rispetto per Vlad, eroe della lotta ai turchi.
La casa di Maria, che ci accoglie per la cena, è un’accogliente abitazione di montagna, con i letti a castello, la mitica polenta con lo spezzatino, una serata piovigginosa che ci fa mettere maglioni e k-way. Una cena intima come in un rifugio, Maria è una giovane donna accogliente, ha una figlia bella e ben difesa da un padre deciso a arginare sul nascere gli sguardi dei nostri giovani compagni di viaggio. Si parla del gruppo di polacchi che si son persi in montagna e non tornano. Poi prima della buonanotte, col buio, i polacchi arrivano un po’ stravolti, bagnati e nemmeno salutano.
Colazione presto, le marmellate di Maria fatte in casa, la tisana di menta e limone, il salame, il formaggio. Piove, ma sta schiarendo. Ancora boschi, poi sfumano verso la piana di Bucarest. La città non la visitiamo, non c’è tempo prima del volo e forse c’è poco da vedere. Attraversiamo periferie fatte di condomini in serie, qualche giardino, qualche chiesa. L’aeroporto è affollato, tutti a Bergamo, Orio al Serio.
George e Eugenio restano: e noi li invidiamo un po’, vanno in ricognizione sul delta del Danubio, quello che “il maestro”, Claudio Magris, usa come metafora di una meta anelata e deludente, e che tuttavia lascia intatto il senso del viaggio. George resta a curare il suo progetto, a cui abbiamo dato il nostro piccolo contributo, ma che non vogliamo smettere di sostenere e di sentire anche nostro: stare nella propria terra, starci trovando una vita possibile, starci con un progetto ambizioso, che vuole tenere insieme lo sviluppo e il rispetto, il turismo e l’equilibrio magico dei villaggi rurali, la produttività e la bellezza. Quasi un sogno.

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