Il pomeriggio del 27 giugno, a partire dalle 15.30 il Castello del Buonconsiglio si animerà di volti e voci dal Sud-Est Europa. Produttori, contadini, agronomi e botanici provenienti da Bulgaria, Albania e Serbia si incontreranno con membri di Slow Food del Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia per confrontarsi su un tema tanto delicato quanto dirimente: la diversità come bene comune.

I riduzionismi all’opera da anni in vari campi del sapere e della politica stanno impoverendo l’enciclopedia di risorse naturali (sia di carattere biotico che abiotico) e socio-culturali (conoscenze locali, istruzione, memoria) del pianeta. Slow Food si batte da anni affinchè questo straordinario patrimonio non vada perduto, con un’attenzione particolare a quello eno-gastronomico. I Balcani in questo senso sono un esempio paradigmatico: varie e complesse tradizioni agro-alimentari – ben rappresentate dalla rete di Terra Madre nel Sud-Est Europa, forte di 1500 soci, oltre 60 convivia e 20 presìdi Slow Food – che rischiano di scomparire in pochi decenni.

Ivana Radić è giovane ma sembra già avere le idee chiare. Un dottorato di ricerca alle porte per acquisire strumenti e competenze scientifiche con le quali osservare il mondo; l’impegno instancabile all’interno della rete serba di Terra Madre e di Slow Food Youth Network. A questo si aggiunge la componente forse più importante: un forte legame con la propria terra e i suoi prodotti, che è ben decisa a tutelare malgrado i tanti becchini al lavoro.

Come si è avvicinata a Slow Food?

Ho studiato alla facoltà di Agraria a Belgrado, e per la laurea specialistica mi sono trasferita a Bologna. In Italia ho conosciuto le attività di Slow Food, e quando sono tornata a Belgrado sono andata alla ricerca della loro presenza anche nel mio paese. Qui ho conosciuto Biagio Carrano e Mirjana Ostojić, che mi hanno introdotta all’interno della rete serba di Terra Madre. L’ottobre scorso son venuta a Torino per partecipare all’edizione 2012 di Terra Madre, dove sono entrata in contatto con Slow Food Youth Network e a marzo ho partecipato ad una loro conferenza in Olanda. Il prossimo ottobre inizierò un dottorato in in Francia, con un progetto di ricerca comparata tra Italia e Francia sul tema della preservazione della biodiversità e lo sviluppo rurale. A questo si aggiunge la mia biografia. Vengo da Velika Plana, un paesino a novanta chilometri a sud di Belgrado e i miei genitori mandano avanti una fattoria dove producono marmellate, ajvar e altri prodotti a base di frutta e peperoni. A breve nascerà un Convivium Slow Food anche nel nostro villaggio.

 Il 27 giugno a partire dalle ore 15.30 è previsto

I relatori saranno:

- Sergio Valentini, Presidente Slow Food Trentino Alto Adi-
ge

- Massimimiliano Plett, Presidente Slow Food Friuli Vene-
zia Giulia

- Dessislava Dimitrova, Coordinatore Slow Food per i Bal-
cani e membro della presidenza di Slow Food International

- I delegati delle comunità del cibo di Terra Madre prove-
nienti da Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia,
Albania, Bulgaria e Serbia
 
Modera: Walter Nicoletti, giornalista

Può presentarci brevemente la rete serba di Terra Madre?

Esistono due convivia ben organizzati rispettivamente a Futog (Serbia settentrionale) e a Gledić, nei dintorni di Kraljevo. Forti di un’ampia base associativa composta da produttori, ristoratori e cuochi, queste due realtà rappresentano la spina dorsale della rete serba di Terra Madre. Negli ultimi mesi abbiamo inoltre rafforzato una rete di giovani che si sta concentrando su attività di ricerca-azione nel campo dell’agricoltura e della tutela della biodiversità, e per il futuro prossimo abbiamo intenzione di concentrarci anche sugli aspetti culturali e sociali legati al cibo e alla gastronomia.

Parlando con altri membri di Slow Food in Serbia, mi è stato spesso fatto notare con rammarico che i giovani di questo paese stanno perdendo il rapporto con le proprie tradizioni gastronomiche. Si è mai chiesta il motivo?

Per quanto riguarda Belgrado e più in generale i centri di grandi dimensioni, a mio parere i giovani vogliono mostrare un’immagine di sé “all’occidentale”, come se vivessero a New York, e quindi hanno abbandonato i cibi della cucina tradizionale per votarsi al modello “fast food”. Ma Belgrado non è New York! Speriamo che in un futuro prossimo questo possa cambiare. Penso sia importante in quest’ottica organizzare iniziative di Slow Food in Serbia anche in locali frequentati da giovani, come è stato fatto a fine gennaio al Kulturni Centar Grad (centro culturale nel centro cittadino lungo la Sava a pochi passi dal Brankov most, ndr), un locale considerato all’avanguardia nel seguire le mode provenienti dalle sottoculture occidentali, che quindi può far da modello per i giovani di Belgrado anche su tematiche quali il consumo critico o la sostenibilità agro-alimentare. In sintesi, un ragazzo belgradese potrebbe pensare: “se al KC Grad mangiano prodotti della nostra tradizione allora lo faccio anche io!” In Serbia per i giovani tutto dev’essere “cool”.

Le nuove generazioni lavorano ancora nei campi?

Il fenomeno di abbandono delle campagne è molto più massiccio qui che in Italia o in altri paesi dell’Europa occidentale. Un’amica ricercatrice ha scoperto che più della metà dei piccoli produttori agricoli in Serbia ha un’età media tra i 45 e i 50 anni, e il 15-20% tra i 60 e i 65 anni. Accanto a questo trend troviamo però anche storie di segno opposto come quella di Nikola, che qualche anno fa ha lasciato Belgrado per andare a vivere nel villaggio della sua famiglia, a Rudnik. Nel giro di poco tempo è diventato un allevatore di capre (oggi sono 60) con le quali produce mladi sir e una specie di pecorino nostrano, che vende poi sia ai ristoranti di Belgrado che a clienti privati. I problemi principali legati all’abbandono delle campagne potrebbero essere sintetizzati in: mancanza di sussidi statali per l’agricoltura; un sistema bancario reticente a rilasciare crediti ai contadini; linee di finanziamento europeo come gli IPA (Instruments for Pre-Accession Assistance, finanziamenti europei destinati ai paesi che possiedono lo status di “candidati” o “candidati potenziali” per l’adesione all’Unione Europea, ndr) che sebbene siano formalmente aperte anche a progetti in campo agricolo molto raramente vanno effettivamente a sostenere questo settore, poichè gli applicants (ONG, municipalità ed enti locali) sono soliti concentrarsi su altri settori d’intervento come quello infrastrutturale.

Com’è cambiata la situazione rispetto al periodo jugoslavo?

Ai tempi della Jugoslavia il contadino era un signore. Mia madre era direttrice di una cooperativa agricola gemellata con una sua omologa romagnola, a Conselice nei pressi di Imola. L’anno scorso, mentre studiavo a Bologna, mi sono recata a Conselice per ritessere i rapporti con questa comunità.

Tutto sommato era un modello che funzionava nel periodo jugoslavo. Oggi la parola “cooperativa” è legata al passato comunista, e quindi qualcosa da rimuovere… l’analisi del linguaggio gioca qui un ruolo importante: se pronunci la parola zadruga, come erano chiamate appunto nella nostra lingua le cooperative agricole, verrai subito accusato di essere un irrimediabile nostalgico del passato regime. Ma se la chiami con un altro nome, per esempio Convivium, allora il significato sociale che gli verrà attribuito sarà positivo, anche se nella sostanza si tratta della stessa cosa. Per questa ragione penso che il lavoro di Slow Food può essere utile nel campo delle pratiche discorsive legate alla terra e ai contadini, tematizzando – specie all’interno dell’opinione pubblica – tali questioni se non altro senza ideologismi e autoinganni.

Le viene in mente una storia particolare che a suo modo di vedere rappresenta la filosofia del “buono giusto e pulito” di Slow Food? 

La mia! Se chiedi a qualsiasi persona qual è stata la prima cosa che è gli è venuta in mente quando ha messo piede nella mia casa di Velika Plana, la risposta sarà quasi certamente il cibo. Chiunque si presenti alla fattoria dei mei genitori sarà nutrito a dovere con i nostri prodotti, dai polli ai conigli, i gustosi pomodori provenienti dall’orto, aglio e cipolle.. e se manca qualcosa, andiamo a prenderlo dai nostri vicini! Mio padre coltiva zucche, cetrioli così saporiti che vanno mangiati senza pelarli, le patate che difende con amore durante la primavera dall’attacco dei parassiti. Quando sono in viaggio – negli ultimi tempi sempre più spesso –, ai souvenirs preferisco l’acquisto di prodotti gastronomici che vado a scovare nei mercati dei paesi e delle città visitate, o ricevo in dono dai contadini che incontro per lavoro e che poi porto in regalo alla mia famiglia. Dietro ogni prodotto si cela una storia: l’olio d’oliva che mi regalò un anziano signore montenegrino, il miele di un’apicoltrice olandese, le verdure essicate che mi portai nello zaino dalla Turchia sino a Velika Plana per regalarle ad un’amica di mia madre.. mamma non è una chiaccherona, ma il cibo che cucina dice più di mille parole. E infine i piccoli contadini, i miei nipotini Mina e Iva che hanno già il loro allevamento di conigli e quando saranno grandi porteranno avanti la tradizione della nostra famiglia.

Nelle scorse settimane è stata coinvolta nell’organizzazione di un’importante conferenza a Belgrado. Ci può raccontare qualcosa a riguardo?

L’ultima settimana di maggio presso la Facoltà di Agraria dell’Università di Belgrado si è tenuta una conferenza internazionale sul tema della tutela della biodiversità come motore per lo sviluppo rurale e il rafforzamento delle filiere corte. All’evento hanno partecipato numerosi relatori internazionali così come docenti serbi provenienti da diverse discipline, dalla botanica alle scienze veterinarie. Per noi è stata anche un’occasione per presentare ad un’ampia platea i princìpi e le pratiche di Slow Food e della rete Terra Madre. Nei giorni successivi alla conferenza, ho seguito Serena Milano, Michele Rumiz e Matteo Pizzi di Slow Food International in missione a Gledić, dove hanno visitato un “membro” serbo dell’Arca del Gusto, l’oramai famosa Rakija iz Rakije. Dopo Gledić abbiamo visitato altri produttori serbi, tra cui la mia famiglia e altri abitanti di Velika Plana che come ho già detto a breve fonderanno un Convivium Slow Food. La realizzazione di un’Arca del Gusto in Serbia (oltre alla Rakija iz Rakije l’unico altro prodotto è l’Ajvar di Leskovac) è uno degli obiettivi del progetto Esedra, che Slow Food International ha recentemente avviato nel Sud-Est Europa.


Dragana Veljović ci mostra i suoi pruni da cui ricava la Rakija iz Rakije. L’apertura del Convivium Slow Food di Gledić è il risultato della collaborazione tra Slow Food International e l’Associazione Trentino con i Balcani, con la quale Dragana collabora da molti anni.

La ricerca accademica in Serbia è sensibile alle istanze portate avanti da Slow Food (biodiversità, sovranità alimentare, specie autoctone)?

Direi di sì. Esistono molte pubblicazioni scientifiche prodotte da università serbe dedicate agli studi sulla biodiversità. Durante la conferenza di fine maggio, uno degli interventi più seguiti è stato quello di Zora Dajić, una botanica della facoltà di Agraria di Belgrado che ha contribuito enormemente alla ricerca sulla biodiversità nei Balcani. Marija H.S. Pavlović, una membra di Slow Food Youth Network, fa parte di un gruppo di ricerca alla facoltà di Veterinaria sempre di Belgrado che sta portando avanti un progetto sull’allevamento di specie animali autoctone di questa regione. Accanto al lavoro di ricerca ci sono poi gli esperimenti pratici: assieme al professor Ivo Djinović stiamo producendo succhi, marmellate e dolci da diverse specie di ciliegi provenienti dal suo sterminato frutteto, con l’obiettivo di valutare le diverse qualità. Vogliamo conoscere a fondo tutto ciò che la natura ha da offrire, per proteggere le sue parti più fragili. Al momento, una pianta di amarena ci ha dato il miglior succo che abbia mai provato! 

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