Fabrizio Masi

ISTRIA, STORIE OLTRE I CONFINI TRA MEMORIE, RADICI E LIBERTÀ

prefazione di Emilio Rigattipostfazione di Leonardo Barattinfoto di Massimo Battista

Ediciclo editore 2020

E’ in libreria il volume realizzato da Fabrizio Masi, nato e residente a Muggia, piccolo lembo d’Istria rimasto entro i confini italiani.
Presidente dell’associazione Viaggiare Slow, che realizza tracciati cicloculturali dall’Austria a Lussino, dal Friuli a Lubiana, da Trieste a Pola, Fabrizio è animato da un forte amore per la sua terra. Con questo suo contributo ha voluto dar voce a coloro che, nel tempestoso fenomeno dell’Esodo istriano, sono rimasti al di là della linea di confine, nella Jugoslavia socialista.

Vi proponiamo le prime pagine del libro e due estratti delle storie raccolte nel percorrere l’Istria su ogni terreno, stringendo mani, scambiando sorrisi e condividendo momenti importanti.

Ringraziamo cordialmente la Casa Editrice Ediciclo per averci permesso la pubblicazione del testo.

“All’alba del solstizio d’estate chiudo alle mie spalle il cancello che schiocca nel silenzio un suono metallico nell’aria ferma. Lascio a casa le mie donne ancora avvolte dal sonno che culla gran parte del borgo.

Il cielo azzurro pastello lascia intuire future giornate di tempo favorevole, anche se lungo l’orizzonte a occidente una striscia di cirri arricciati come il nastro di un celestiale regalo mi fa pensare a un possibile cambio di rotta meteorologica.

Controllo la pressione delle ruote, sistemo la borraccia, assicuro con cura le sacche sulla bicicletta, verifico il funzionamento delle luci e sistemo meticolosamente l’altezza della sella, serrando forte il collare.

Cerco, senza orientarmi, di guadagnare un primo caffè in solitudine; la cittadina è ancora sospesa nel limbo, nel respiro frizzante di una mattina di giugno.

Il rumore di cucchiaini e tazzine, il rullio del macinacaffè, l’occhiata distratta al giornale sul frigo dei gelati sono le prime istantanee del viaggio.

Cerco meccanicamente di riepilogare gli elementi che mi porto dietro in questo breve viaggio. L’essenzialità del “viaggiare leggero” mi facilita il conto, ho lasciato a casa tutto il possibile, anche l’orologio ho voluto sfilare dal polso, come a volermi denudare di tutte le gabbie che quotidianamente avvolgono le nostre vite.

L’espresso mi lascia sul palato un sapore pungente e aromatico che mi accompagnerà per i primi chilometri. Desidero prenderne altri di caffè lungo il mio viaggio, spero di incontrare qualcuno a cui offrirlo. Il gesto mi restituisce il senso del contatto con il prossimo. Spesso, prendere il caffè con una persona risponde al desiderio di fermare il tempo con un amico. La tazzina è la scusa più banale.

Mi sistemo il casco serrando la chiusura sotto il mento e infilo gli occhiali per spingere la mia bicicletta con la prua al sole. Direzione est, sud-est.

Pedalo per raccogliere delle storie. Desidero farlo così, dove la velocità della bicicletta mi consentirà di raccoglierle fresche, di conservarle e lasciarle decantare nella testa metro dopo metro, di riflettere, di seguire un filo, un senso.

La bicicletta mi permetterà di arrivare ovunque, nella pancia e nelle rughe del territorio, nelle piazze e nelle viuzze strette dei borghi più lontani, di attraversare i boschi, le campagne, accarezzare il mare e superare le colline, valicare i confini e incontrare le persone. Ecco le persone, anima e sentimento di una terra immaginata sempre come l’altrove.

Paradigma di questa mia piccola raccolta vuole essere l’Istria e in particolare la Parenzana, una vecchia linea ferroviaria dismessa che connette tre Paesi: oggi Italia, Slovenia e Croazia; nei secoli territori della Repubblica di Venezia, Austria, Italia e Jugoslavia. Frammenti di un puzzle nostrano scomposto e ricomposto più volte nella storia.

Oggi, lungo questa linea le biciclette e i viandanti hanno sostituito i treni. Un percorso di 120 chilometri che unisce la Venezia Giulia all’Istria nord-occidentale; un tracciato che parte dal mare e al mare si chiude. Una linea asburgica che collegava le cittadine sull’Adriatico ai borghi dell’interno e cuciva il tessuto economico, culturale e commerciale delle città a località minori esterne alle rotte delle “sacre merci”. Il treno ha trasportato beni e persone tra Trieste e Parenzo dal 1902 al 1935, tante fermate faceva e lento, molto lento era il suo incedere. Il tracciato particolarmente ardito comprendeva trentatré tra fermate e stazioni intermedie, nove gallerie e undici tra ponti e viadotti.

Pensata e nata nel periodo di amministrazione austroungarica, la linea ferroviaria evidenziò da subito diverse fragilità dovute al percorso tortuoso, su terreni difficili, in alcuni tratti esposta alla bora e poco vantaggiosa rispetto ai diffusi collegamenti marittimi. Passò all’amministrazione italiana dopo la prima guerra mondiale registrando un lento e inesorabile declino, rimpiazzata dalla successiva crescente diffusione di automobili e corriere.

La linea venne chiusa il 31 agosto del 1935, smantellando il materiale rotabile e in qualche caso anche alcune stazioni che hanno lasciato il posto a un progressivo espandersi delle città e della nuova viabilità. Tutti i binari dei 123 chilometri sono stati caricati su una nave per essere trasferiti in Abissinia, allora colonia italiana, ma la storia racconta che la nave fu affondata e così le rotaie non arrivarono mai a destinazione.

Da allora sono passate parecchie stagioni, ma il treno non è stato dimenticato e ha lasciato romantiche tracce nelle persone e nei racconti che, a distanza di ottantacinque anni, ancora ricordano il suo passaggio.

Camminare o pedalare oggi lungo questo tracciato significa ripercorrere la storia del territorio attraverso un secolo di cambiamenti ed evoluzioni storico-politiche che hanno disegnato nuovi scenari in queste terre.

Parto da Muggia, la porta dell’Istria, primo borgo marittimo della regione. Siamo in Italia ma in un precario equilibrio sul confine orientale. Ci troviamo non lontano da Trieste, città da dove il trenino partiva ma con la quale non c’è somiglianza. Trieste è austera, asburgica, monocromatica e imperiale; Muggia è veneta, marinara, colorata e vivace. Tra le due in passato ci sono stati attriti, battaglie, dispetti e rivalità economiche. Con la caduta della Serenissima la città più grande ha assoggettato la sorella minore e ne ha fagocitato le storie, ha attratto le genti e cancellato confini, accorciando le distanze. Un braccio d’acqua separa le due entità, ma il borgo più piccolo conserva ancora i ritmi del passato. È Istria qui, e da qui posso raccogliere le mie e le nostre storie”.

Pirano. Foto Fabrizio Masi
Montona sullo sfondo. Foto Fabrizio Masi

dal racconto di Dario Bartole – Pirano

Era il 19 marzo del 1921, San Giuseppe, santo patrono degli artigiani e protettore dei poveri. Era una bella giornata di primavera e un sabato di festa: si svolgeva infatti nella piccola frazione di Strugnano, nella valle tra Isola d’Istria e Pirano, la tradizionale festa da ballo e con il treno delle sedici e tredici erano attese molte persone dalle vicine città della costa.

Il treno attraeva soprattutto i bambini, che accorrevano dalle frazioni contigue e dalle campagne, volevano vedere questo enorme carro meccanico sbuffante capace di caricare tante persone e tante cose insieme. Mica come il carretto trainato dagli asini o dal bianco bue istriano: il boscarin.

L’arrivo del treno, quando si materializzava, catalizzava sempre l’attenzione dell’intero paese.

La piccola stazione della ferrovia era vicina alla trattoria Alla Lega. Nell’area antistante si ergeva un imponente olmo attorno al quale giocavano e correvano numerosi ragazzi.

Testimoni raccontano che il fatto accadde alla ripartenza del treno. A quel punto, tra lo sferragliare del locomotore, si udirono diversi spari, ripetuti e mortali.

Mentre il treno proseguiva la sua corsa, inghiottito dalla lunga galleria del monte Luzzan, a terra rimasero i corpi di alcuni bambini e ragazzi, tra i quali, quelli di Domenico Bartole (quattordici anni) e Renato Braico (quindici). Per loro non ci fu scampo. Altri cinque rimasero feriti, tra cui Giovanni Bolcic, Francesco Hervatic e Mario Braico, fratello sedicenne di Renato, il più grande della compagnia, centrato da diverse pallottole e incredibilmente rimasto in vita ma costretto a vivere per il resto dei suoi giorni con una grave invalidità. La mano che aveva preso di mira il gruppo, doveva avere una certa confidenza con le armi.

I ragazzi a terra furono subito soccorsi ma Domenico e Renato spirarono tra le braccia dei soccorritori.

Alcune persone, chiamate a raccontare i fatti, poterono testimoniare la presenza a bordo del treno di numerosi giovani in camicia nera, giovani anche di Pirano, alcuni visibilmente alterati dall’alcol.

I colpevoli di tale strage non vennero mai identificati e condannati. Si racconta di silenzi e di omertà.

Il grave fatto fu ben presto rimosso e anche la stampa non vi prestò grande attenzione. In un articolo non firmato, pubblicato dal giornale locale “Il Piccolo” in quei giorni, si parla di “gravi incidenti tra fascisti e comunisti a Strugnano” e, stando a quanto scritto, sarebbero state sparate addirittura delle fucilate contro il treno.

Il fascismo stava covando le sue violente fiamme che si erano già manifestate precocemente in queste terre.

Dario. Foto Massimo Battista

dal racconto di Bruno – Montona

Bruno è nato qui nel 1955; è cresciuto nella Jugoslavia e negli anni della sua infanzia ha visto amici, cugini e compaesani lasciare le terre per spostarsi in Italia. Chi a Torino, chi a Venezia, chi a Trieste. «È gente che ha scelto l’esodo più per motivi economici che politici» dice Bruno. «Alcuni erano anche comunisti ma non se la sono sentita di rimanere».

Mi racconta delle feste in paese, d’inverno quando si macellava il maiale o all’inizio dell’estate quando iniziavano i raccolti nelle campagne. Si ricorda ancora gli odori di quei giorni di festa: «Si era poveri ma si condivideva la gioia delle semplici cose della campagna».

Come la polenta, l’odore della legna, i gamberi pescati nel torrente, il profumo del fieno, le corse a piedi scalzi. «Se chiudo gli occhi me li ricordo ancora certi odori».

Qualcuno degli emigrati a volte ritorna qui d’estate e Bruno ne riconosce i tratti anche a distanza di decenni. Ci sono sentimenti e ricordi che non si lacerano. Gli istriani sparsi per il mondo sono molti di più di quelli rimasti, ma questa terra, come una calamita, sa attirare la sua gente.

«Siamo cambiati ma le facce di chi viveva qui me le ricordo ancora».

Bruno e Nadia. Foto Massimo Battista

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