Eravamo scettici, noi della 4°A, quando il professor Dossi ci propose, ancora ad inizio anno, di andare in gita a Sarajevo. Non solo, alcuni di noi si erano categoricamente opposti al viaggio, ignorando le sollecitazioni di chi, incuriosito, aveva lasciato subito che lo spirito particolare dell’esperienza si insinuasse nella propria mente. Inizialmente facevo parte del gruppo “anti-Bosnia” ritenendo il progetto troppo costoso e faticoso, ma pigrizia e taccagneria sono sparite non appena ho avuto in mano una serie di testimonianze di chi i Balcani li aveva già assaporati. “Vedrai, sarà interessantissimo. Sarajevo è una città multietnica e bellissima!” mi diceva chi c’era già stato. Proseguendo con l’iniziativa si sono aperte davanti a noi alcune opportunità: innanzitutto pensammo di arrotondare la quota svolgendo delle attività di autofinanziamento, come la vendita di leccornie caserecce durante le udienze e una lotteria che riscosse un successo enorme tra i nostri genitori.

Il progetto prevedeva l’organizzazione e la collaborazione dell’associazione “Viaggiare i Balcani”, un’associazione di Trento che dai primi anni dalla fine della guerra nella ex Jugoslavia si occupa di sensibilizzare e far conoscere, soprattutto attraverso dei viaggi, la realtà dei Paesi balcanici. Il percorso che ci ha piano piano introdotto alla realtà che avremo incontrato è iniziato con tre incontri di formazione sulla storia del luogo, inoltre ci sarebbe stata con noi per tutto il viaggio una guida che avrebbe fatto da mediatore e da interprete.

Così, dopo tre lunghe e faticose lezioni di storia, dall’impero ottomano alla guerra del ’92, geografia e costumi e tradizioni bosniache, serbe e croate, l’8 aprile 2014 le classi 4 A, 4 C e 4 F sono partite alla volta della Bosnia-Erzegovina, per conoscere meglio una realtà che viene spesso ignorata dalle nostre generazioni in quanto protagonista di una guerra troppo recente per essere studiata sui libri di scuola, ma anche troppo lontana per essere ricordata da noi, che all’epoca eravamo solo dei bambini. La prima sosta è stata sul confine con la Slovenia, dove Leonardo, la guida, ci ha mostrato il monumento dei caduti della prima guerra mondiale di Redipuglia.

Abbiamo proseguito fino a Zagabria e poi a Jasenovac, un paesino che sorge sul confine serbo-croato, sulle rive del fiume Sava, dove abbiamo visitato il vastissimo campo di concentramento, il più grande costruito nei Balcani durante la seconda guerra mondiale. Al centro di questa distesa d’erba, che ha detenuto migliaia di persone, sorge un monumento a forma di fiore ideato da Bogdanovic, intellettuale di rilievo per la storia dei Balcani. Leonardo ha voluto spiegarci il vero significato di quel luogo: dopo la liberazione del campo la natura ha voluto riprendersi l’ambiente, ciò che era suo; dopo le barbarie e la tristezza che l’uomo ha lasciato dietro al suo cammino, dopo la desolazione, le piante e gli animali si sono impadroniti di nuovo di quel luogo. Per questo il monumento è stato edificato in nome della rinascita, della vita che torna, della pace, ed è facilmente riconducibile a tutte le religioni, cristianesimo, islamismo ed ebraismo, perché tutti sono stati vittima della guerra.
La classe 4a a Mostar   

La classe 4a a Mostar

Siamo arrivati a Prijedor nel tardo pomeriggio: alcuni di noi hanno conosciuto le famiglie che li avrebbero ospitati. La città si trova nella parte della Repubblica Srpska, la zona più a nord di Bosnia-Erzegovina, è una città popolata principalmente da Serbi. La sera siamo stati invitati a cenare al centro culturale KUD Kozara, un circolo che dà l’opportunità ai giovani di destreggiarsi, anche all’estero, in performance di danze folkloristiche. La cena, a base di piatti tipici bosniaci, si è conclusa con uno spettacolo musicale da parte dei ragazzi del circolo, con un contributo finale anche da parte nostra. Il 9 aprile abbiamo incontrato i responsabili dell’associazione Promotur, che si occupa di gemellaggi e relazioni con l’estero, e dell’Agenzia della Democrazia Locale che ci hanno presentato i progetti rivolti ai giovani della città.

Dopo un breve giro turistico di Prijedor la nostra guida ci ha mostrato un murale che è stato realizzato nel 2013 e che raffigura Mladen Stojanovic, eroe jugoslavo e figura di riferimento a Prijedor, circondato da una serie di simboli della città. L’impatto con Prijedor è stato molto forte, trattandosi di una città abbastanza povera, situata in una zona desolata e poco urbanizzata ma anche con ancora visibili i segni della guerra. E’ stato interessante venire a contatto con persone che hanno vissuto questa terribile esperienza. Alla fine della giornata avevamo cominciato tutti a prendere coscienza di ciò che stavamo per affrontare: un percorso fatto di edifici segnati da granate e persone, forse troppo giovani, con il dolore ancora negli occhi.

Siamo partiti poi per Sarajevo. Ci ha accolto una città ovviamente diversa da Prijedor: una capitale. Gli edifici di Sarajevo sono portatori di ricordi, segnati da solchi indelebili, parlano al posto degli animi degli abitanti. Sarajevo non è solo la capitale della Federazione croato-musulmana, ma anche di tutta la Bosnia-Erzegovina. E’ conosciuta per essere lo scenario dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando nel 1914 e nel 1984 ha ospitato i giochi olimpici invernali, le cui strutture sono ancora visibili. Ma Sarajevo è famosa soprattutto per il suo assedio, durato tre anni, da parte delle forze serbo-bosniache, durante la guerra di Bosnia. La nostra guida, Dima, una donna che ha vissuto l’assedio, ci ha spiegato nei dettagli la tragedia che gli abitanti della città hanno vissuto durante quel periodo.

La cosa più straordinaria dell’assedio è che a difesa di Sarajevo erano presenti sia croati e bosniaci che persone di origine serba: i cittadini che, pur dovendo in linea teorica appartenere al fronte nemico, hanno combattuto per la propria città, andando contro le proprie origini. Uno di questi è il generale Jovan Divjak, che noi abbiamo incontrato, e che, pur essendo serbo, ha difeso la città. “Dove sarei dovuto stare?”, ha risposto alla domanda sul perché non si fosse schierato dalla parte serba. Ed è così che abbiamo capito: per bosniaci, croati o serbi, durante l’assedio la nazionalità era irrilevante, tutti combattevano per difendere la propria casa, i propri vicini, la propria vita. Gli abitanti di Sarajevo si sono schierati contro il nazionalismo, la “patria” e la religione, in nome della libertà e della pace. Eppure, nonostante questa mentalità diffusa tra la popolazione, c’era anche chi era disposto a sparare contro i propri compagni di scuola ed i propri amici, come ci ha spiegato Dima. “I ragazzi sono cresciuti in fretta – ci ha detto – hanno preso le armi e difeso la città con gli adulti”. Nonostante la guerra, però, Sarajevo è sopravvissuta durante l’assedio: cinema, teatri e scuole hanno continuato a svolgere le attività quotidiane ed è stato forse anche questo che ha fatto in modo che i sarajevesi non perdessero la speranza nella libertà e che continuassero a lottare nonostante gli edifici in fiamme.

Il secondo giorno a Sarajevo abbiamo visitato la sede dell’associazione «Obrazovanje Gradi BiH» fondata dal generale Jovan Divjak a favore dei bambini che sono stati vittima della guerra e che offre loro sostegno di qualunque tipo, sia morale che materiale. Gli obbiettivi che l’associazione ha raggiunto nel corso degli anni sono stati straordinari, ci ha spiegato lo stesso Divjak: hanno offerto più di 25000 borse di studio a ragazzi bosniaci e circa 200 di questi ragazzi sono riusciti a laurearsi e ad ottenere un lavoro in Bosnia-Erzegovina.

Associazioni di questo tipo, con volontari che aiutano attivamente le vittime della guerra, sono importanti proprio per affermare che il dolore provato negli anni dell’assedio non è stato vano e che libertà non significa solo poter fare ciò che si vuole, ma anche scegliere come vivere, ed è questo che offrono i volontari: opportunità per il futuro. Nel pomeriggio abbiamo visitato il tunnel che durante la guerra di Bosnia-Erzegovina collegava Sarajevo alla zona bosniaca, subito dopo la linea serba, oltre il monte Igman. Si tratta di un cunicolo molto stretto, spesso allagato, come ci ha spiegato la guida, che serviva per il trasporto di rifornimenti. Per sei mesi infatti, i cittadini hanno sofferto la penuria di cibo, ma nonostante ciò non si sono arresi e hanno atteso l’intervento della NATO che ha fornito viveri alla popolazione e che, riportando acqua ed elettricità, ha dato inizio al calo di bombardamenti sulla città, lasciando intravedere la fine dell’assedio. Nonostante le forze sarajevesi fossero di gran lunga minori di quelle serbe, si contava infatti una differenza di 100 carri armati a favore delle forze nemiche.

Presso la tekija di Blagaj

L’assedio, che secondo i calcoli degli aggressori sarebbe dovuto durare 7 giorni con la conseguente vincita dei nazionalisti, si è concluso a favore dei civili che hanno protetto le loro case con coraggio e determinazione e hanno proseguito, anche quando il terrore della guerra li aveva ridotti allo stremo. Ciò che colpisce maggiormente di Sarajevo sono gli edifici che ancora oggi portano le cicatrici di quello che è stato. Nonostante questo però la città, come tutta la Bosnia-Erzegovina, sta rinascendo lentamente: nuove generazioni sono nate e quelle che hanno vissuto la guerra si impegnano affinché tutto questo venga sistemato, ma mai dimenticato.

L’ultima tappa del nostro viaggio è stata la città di Mostar. Credo di parlare a nome di tutti quando dico che siamo rimasti impressionati dall’enorme differenza di paesaggio che ci è apparsa quando abbiamo raggiunto il sud del Paese: mentre Sarajevo e Prijedor sono situate in una zona montuosa e verdeggiante, Mostar è circondata da colline coperte di arbusti. Prima di arrivare alla nostra meta abbiamo sostato a Blagaj dove abbiamo visitato la Tekja, un luogo di culto musulmano, e dove abbiamo anche gustato del delizioso ed economico pesce.

Mostar è una piccola città della Federazione, famosa per il suo ponte sul fiume Neretva che nel 1993 fu completamente distrutto dai bombardamenti serbi e che nel 2005, dopo essere stato ricostruito con i detriti recuperati dalle acque, è stato dichiarato patrimonio dell’umanità dall’UNESCO. Nonostante anche Mostar sia stata tenuta lungamente sotto assedio, ci appare come una sorta di “città delle fate”, con il suo paesaggio collinare a cui dà il suo contributo la vicinanza del mare, rendendola affascinante e di conseguenza anche meta molto ambita dai turisti.

Questo viaggio che, come detto all’inizio, non ci aveva per nulla allettato, si è rivelato invece molto interessante: innanzi tutto ci ha dato l’opportunità di saperne di più su una guerra alle porte di casa nostra di cui non si parla molto perché spesso passa in secondo piano rispetto ad altre guerre forse più “famose” o comunque che riportano numeri maggiormente impressionanti. Io stessa, prima di immergermi in questo progetto, non ero abbastanza informata su ciò che è stata la guerra di Bosnia-Erzegovina tanto da poter farmi un’opinione. In questo viaggio abbiamo sentito spesso l’espressione “pulizia etnica” ed è forse questo l’aspetto più impressionante della storia della Bosnia Erzegovina, cioè che spesso ci sia un comune denominatore che unisce le diverse guerre: l’idea di eliminare e sopprimere qualcuno che si ritiene diverso per nascita, religione o pensiero.

Un’ennesima guerra di sofferenze causate da chi vuole imporre il proprio volere sugli altri con una violenza inaudita. Ciò che mi ha fatto riflettere una volta tornata a casa si può riassumere in una sola parola: umanità. Non mi sono mai chiesta cosa significasse realmente questo termine (il che può sembrare un paradosso). Cos’è umano? Umana è la guerra, che porta sofferenze e lascia solchi indelebili nel cuore, sul corpo e nell’animo della gente; umana è la rabbia e la determinazione con cui si sono fatte azioni imperdonabili; umana è l’indifferenza di chi non prova a capire, di chi non riflette e di chi non spinge se stesso a conoscere di più; ma umana è anche la speranza di chi crede che nonostante la fame e il freddo non tutto sia perduto, e soprattutto umani sono gli occhi e le parole di chi è sopravvissuto, di chi ha sofferto ma si è rialzato per combattere, e ora ricostruire ciò che è stato distrutto.

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