Le carte stanno all’essenza del mondo come l’anatomia del cadavere sta alla sostanza vivente del cuore.

(Carl Ritter)
 

Con questa icastica e sprezzante espressione Carl Ritter, padre della geografia moderna, nel 1852 si ribellava contro quella che chiamava la “dittatura cartografica”, colpevole a suo dire di aver soppiantato la descrizione geografica. A partire dal sedicesimo secolo infatti la geografia ridusse definitivamente il mondo a immagine spaziale, e mappe sempre più precise e affidabili si sostituirono a quest’ultimo; la verità si trasformò in certezza della rappresentazione, cioè in scienza, il cui rigore derivava dalla rigidità della tavola.

Fino a Tolomeo la rappresentazione geografica, ossia la riduzione del mondo ad una tavola, riguardava soltanto l’ecumene, la parte emersa della terra su cui l’uomo trova le condizioni essenziali per abitare. Nel Medioevo le rappresentazioni cartografiche divennero la copia del mondo, rispecchiando le relazioni di cui quest’ultimo si componeva, ed erano perciò una sua interpretazione religiosa e filosofica oltre che un suo disegno. Al contrario la modernità è l’epoca “dell’immagine del mondo” – riprendendo la famosa definizione di Heidegger –, nel senso che la più grande rottura operata da essa consiste nella riduzione del mondo ad un’immagine, ad una carta geografica. Come ha scritto Franco Farinelli nel fondamentale “Geografia”, che si pone in diretta continuità con il pensiero di Ritter, “per l’epoca moderna, all’opposto del medioevo, non è la carta la copia del mondo ma è il mondo la copia della carta. Ed è così che davvero il mondo si trasforma nella faccia della terra.

Seguiamo le riflessioni di Farinelli. Opponendosi strenuamente a questa riduzione della “terra a tavola”, che finiva per scambiare la realtà con la sua immagine cartografica, Carl Ritter al termine geografia preferiva Erdkunde, “conoscenza storico-critica della Terra”, che divenne poi il nome della famosa scuola di geografia critica tedesca di cui fu massimo esponente assieme ad Alexander von Humboldt.  Per i seguaci dell’Erdkunde ogni opera scientifica (quindi anche geografica) si reggeva su di una scelta di valori assolutamente soggettiva, il “punto di vista umano”; e conseguentemente, l’unica forma possibile di conoscenza si basava sull’ammissione del carattere storicamente e socialmente determinato, dunque relativo, della natura terrestre.


Carl Ritter

Per questo con l’Erdkunde all’immagine del geografo curvo sulle carte in una fredda stanza mal illuminata subentra quella dell’uomo in viaggio all’aria aperta, intento ad osservare la natura con una penna in mano e un quaderno tra le braccia: aria aperta come spostamento, mobilità del soggetto; la penna invece rimanda ad un approccio discorsivo alla geografia, dunque alla sua incompiutezza, il suo carattere programmaticamente provvisorio e parziale, la sua natura discutibile del tutto opposta a quella normativa e apodittica del tratto cartografico, che non ammette né replica né critica.

L’Erdkunde entra in crisi tra la fine dell’ottocento e l’inizio del ventesimo secolo con la geografia positivistica e la geografia umana che parte unicamente dal reale, aderendo al concreto, cioè alla carta. In quest’adesione incondizionata al dettato cartografico, inteso come sinonimo di realtà, la geografia positivistica si configura come l’esatto rovescio della precedente geografia critica tedesca dell’Erdkunde: conseguenza, la morte del soggetto della conoscenza geografica, la sua paralisi, la sua immobilità. Ogni critico viaggio epistemologico, ossia ogni procedimento che dalla teoria di partenza fondata su una relativa concezione del mondo arrivi alla descrizione scientifica finale risulta abolito in quanto superfluo, dal momento che tra questa e quella non vi è più nessuna distanza: esiste solo la carta e la sua pretesa oggettività. Nella (apparente) reale concretezza l’immagine cartografica permette di fare a meno di ogni teoria, perché essa è già scientifica per definizione. La geografia, scrive Farinelli, “torna ad essere un dispositivo ontologico, un silenzioso strumento per la definizione implicita – dunque non sottoposta a riflessione – della natura delle cose del mondo, esito invece di processi sociali, culturali e politici, di conflitti e negoziazioni”.

Il problema è che anche il sistema cartografico, in quanto sistema logico, è una teoria. Ma invece di spingere all’analisi di tale teoria, alla sua critica, lo si assume come fatto compiuto. Il punto di non ritorno giunge nella seconda metà del novecento con la geografia quantistica, che pretende di ridurre il mondo ad una serie di calcoli. Essa è la prosecuzione della geografia positivistica di fine ottocento: elimina in maniera definitiva il soggetto della conoscenza geografica poiché sopprime per intero la questione del senso, dell’intenzione assegnata al sapere geografico all’interno del contesto della totalità sociale, del mondo nella sua complessità.

Mappe e potere: il caso dei manuali di geografia della Bosnia-Erzegovina.

“L’esercizio del potere crea perpetuamente sapere e viceversa il sapere porta con sé effetti di potere”, diceva Michel Foucault. Così anche le mappe, con la loro pretesa di essere basate su dati, di offrire un’immagine oggettiva – a due dimensioni – del nostro mondo, in quanto fonte di sapere si trasformano presto in strumenti di potere. Un esempio emblematico proviene proprio dai Balcani, più precisamente dalla Bosnia-Erzegovina. Tatjana Sekulić, docente di Sociologia presso l’Università di Milano-Bicocca, nel 2008 ha condotto una ricerca sui manuali di geografia utilizzati nelle scuole superiori in Bosnia-Erzegovina (più precisamente per l’anno scolastico 2008-2009). Come ogni sfera politica, istituzionale o culturale anche l’istruzione, a partire dalla fine della guerra, è diventata terreno di spartizione e controllo dei tre popoli costituenti della BiH (croati, serbi e bosgnacchi) così come stabilito dagli accordi di pace di Dayton. Come scrive Sekulić, “mentre nei libri di storia (delle storie) e di lingua e letteratura (delle lingue e letterature) la frattura tra i gruppi etnonazionali costituenti del paese viene evidenziata in maniera forte, nei libri di testo di geografia il messaggio che passa attraverso la rappresentazione territoriale (da almeno tre punti di vista – serbo-bosniaco, croato-bosniaco e dei bošnjak-bosniaci) appare meno politicizzato e quindi meno esposto alle critiche di chi impone una comunanza di vedute geopolitiche (soprattutto i rappresentanti delle organizzazioni internazionali, ONU e EU)”. Sebbene meno esplicita, la politicizzazione in chiave etno-nazionale dell’educazionenon risparmia neppure i manuali di geografia.


Regione di Sarajevo-Zvornik nel manuale
in uso nella  Repubblica Srpska di
Bosnia-Erzegovina (fonte: Sekulić, 2008)

Nel 2004 è stato firmato dai rappresentanti dei tre popoli costituenti un memorandum allo scopo di armonizzare i testi di geografia per scuole primarie e secondarie, e tuttavia ancora oggi di fatto siamo di fronte a tre distinti programmi, ognuno dei quali orientato verso la propria comunità di riferimento: abbiamo così il manuale in dotazione nei curricula in lingua croata, che già dall’introduzione (“Conosci la tua patria”, ossia la Croazia) chiarisce l’area di interesse di tutto il libro. Si arriva così a pagina 116, dove, citando sempre la ricerca di Sekulić, “l’autore parla della popolazioni croate nei paesi vicini: sottotitolo del primo paragrafo, Bosnia Erzegovina – il secondo stato dei croati. Per capire come una mappa sia quanto di più lontano si possa immaginare da uno strumento neutro e oggettivo, è utile mostrare la rappresentazione cartografica della regione Sarajevo-Zvornik presente nel manuale di geografia in dotazione nella Repubblica Srpska, dove “della capitale si intravede soltanto la coda …jevo, mentre è ben evidenziata la città capoluogo denominata Srpsko Sarajevo”.

 

 

Le mappe di comunità: verso una lettura partecipata del paesaggio.     

La mappa di comunità, strumento scelto all’interno del progetto Seenet II per facilitare l’ideazione del nascente Ecomuseo della valle del fiume Ibar, sembra invece recuperare la lezione della Erdkunde.

La geografa ingleseSue Clifford – e l’ente no-profit Common Ground da lei fondato – può essere considerata tra le inventrici delle mappe di comunità. Come il suo antenato Ritter, anche Clifford è convinta che costruire una mappa sia in primis una dichiarazione collettiva di valori, un’affermazione di principi di coinvolgimento: il farsi carico direttamente di un luogo. “La caratteristica principale della costruzione di una mappa è che si sceglie cosa includere e cosa escludere, ma anche la scala alla quale si desidera lavorare, i confini da usare, i materiali, i simboli, le parole…”.

Luogo” in questa accezione sembra rispecchiare il significato accordato da Ritter, ossia un “campo d’attenzione” la cui forza dipende dall’investimento emotivo di chi lo frequenta, e quindi qualcosa di strettamente connesso alla nostra identità, definibile unicamente in rapporto agli altri esseri umani con cui ci troviamo ad interagire.

Le mappe di comunità in azione.

Per quanto riguarda le Parish Map 
inglesi, si congiglia il sito di Common 
Ground: www.commonground.org.uk

Passando all'Italia, dopo alcune 
esperienze pilota in Piemonte 
le mappe di comunità sono 
diffuse oggi un pò in tutto il paese, 
legate quasi sempre agli Ecomusei.
In questo sito sono raccolti parecchi 
esempi: www.mappadicomunita.it
Venendo infine alla cornice normativa,
 va segnalata la Convenzione Europa 
sul paesaggio (Firenze, 2000), 
con il suo richiamo alla necessità 
di "accrescere la sensibilizzazione di 
società civile, organizzazioni private 
e autorità 
pubbliche al valore dei paesaggi, al 
loro 
ruolo e alla loro trasformazione.
Scarica il pdf della convenzione.

Anche Clifford è preoccupata da alcune tendenze della geografia contemporanea, con la sua pretesa “di essere basata sui dati, di offrire un’immagine oggettiva a due dimensioni del nostro mondo, che – in realtà – è a quattro o cinque dimensioni”. L’evoluzione della cartografia si è accompagnata inoltre a una perdita della conoscenza dettagliata, basata sulla memoria e la tradizione: “più si sale nel livello di astrazione, meno ci sentiamo sicuri nel ragionare su quello che conosciamo – le innumerevoli piccole cose che arricchiscono la vita quotidiana“. Le Parish maps – ideal-tipo che ha poi influenzato le mappe di comunità italiane – si sono diffuse in Inghilterra come reazione intelligente al processo di omologazione dei luoghi e delle culture locali che hanno caratterizzato gli ultimi trent’anni di storia italica. Si affermano dall’inizio degli anni ottanta come esito di lunghe riflessioni circa l’opportunità di avviare una rilettura partecipata del paesaggio, a partire dalla scala locale. All’inizio degli anni duemila, le mappe realizzate o in corso in tutto il Regno Unito sono circa duemila.

Seguendo Maurizio Maggi (responsabile dell’Area di ricerca Territorio e Ambiente dell’IRES, l’ente di ricerca della Regione Piemonte),tre sono i “principi” alla base di una mappa di comunità: 1) l’importanza di far emergere il carattere “peculiare” dei territori (l’unicità dei territori); 2) la necessità ed urgenza di dare una impostazione equilibrata alla questione dell’identità territoriale (la questione delle identità locali); 3) il bisogno di attivare processi di crescita delle leadership locali interessate a creare occasioni di sviluppo a partire dalla ricchezza del patrimonio culturale (l’empowerment).

Uno degli aspetti principali risiede nel carattere processuale delle mappe di comunità: più che la mappa in sé stessa, conta soprattutto la sua modalità di realizzazione, le dinamiche di creazione di senso di appartenenza e di confidenza reciproca, di acquisizione di competenze e creazione di leadership all’interno delle comunità locali. In breve: il processo (la conoscenza del territorio, la coesione che si crea tra i partecipanti) è più importante del prodotto (una mappa da appendere al muro). Le mappe si fanno con l’obiettivo di far nascere, mettere in moto e consolidare forze locali che poi devono trovare un loro ruolo attivo nelle dinamiche di governo del territorio, sempre con il fine ultimo di aumentare il benessere della comunità.


La mappa di comunità di Raggiolo

In ultimo, resta da capire quale utilizzo viene poi fatto di una mappa, poiché il rischio principale è che questa serva solo a ricordare il paesaggio com’era, senza spinte propulsive per il futuro. Bisogna agire su un doppio livello, locale e sovra-locale. Su piano locale, è centrale far emergere una logica di trasformazione sostenibile e realistica del territorio tramite la mappa di comunità. Le mappe, per mettere pienamente a frutto la loro potenzialità di trasformazione, dovrebbero forse essere concepite e realizzate anche come fotografie di quel che dovrebbe esserci e ancora non c’è: mappa allora come “artefatto cognitivocapace di rilevare eventuali progetti latenti, stimolando la fantasia e creatività dellle persone, spingendole ad interpretare le cose da una prospettiva diversa.

A livello sovra-locale, ci dev’essere un raccordo tra le azioni di base (le mappe) con le forme e gli ambiti di pianificazione territoriale ufficiali che già operano a livello sovra-locale. In ogni caso, la vera scommessa sta in un approccio verso politiche integrate: affinché una connessione proficua tra iniziative locali e pianificazione “ufficiale” possa realizzarsi, è necessaria una maggiore interconnessione con gli altri piani – oltre a quelli urbanistici e paesistici, anche quelli di sviluppo rurale, turistici, della formazione, dei trasporti, etc. per favorire processi coerenti e intelligenti di lettura partecipata e presa in carico dei propri paesaggi.

Nel terzo e ultimo capitolo di questo approfondimento seguiremo Adriana Stefani, consulente di alcuni ecomusei italiani ed esperta in mappe di comunità, lungo le possibili future “stanze” dell’ecomuseo della valle del fiume Ibar, in una visita-studio da Kraljevo a Novi Pazar.

Fine seconda parte.

Per saperne di più:

AA.VV., Genius loci. Perchè, quando e come realizzare una mappa di comunità. Istituto di ricerce economico-sociali del Piemonte.

Clifford S., King A. (a cura di), 1996, From place to PLACE: maps and Parish Maps, Common Ground, London;

Farinelli F., Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo. Piccola biblioteca Einaudi, 2003.

Sekulić T., Riscrivere la geografia, ricostruire lo spazio immaginato. Bosnia Erzegovina, un unico paese nelle tre prospettive geopolitiche, paper presentato in occasione della conferenza Geografia scolastica: programmi, libri di testo, carte nella produzione del discorso geopolitico, 20-21 ottobre 2008, Università di Milano-Bicocca

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Ecomusei e mappe di comunità lungo il fiume Ibar: strumenti in azione. Prima parte.

 

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