Non so quante cose funzionino ancora oggi nella scuola italiana. Ma almeno una cosa (e ve ne sono altre, forse, se uno cerca a lungo) riesco ad apprezzare e cioè che si abbia ancora la dignità culturale di consentire “viaggi di istruzione”. A dire il vero, si tratta solo ancora di un “consentire” perché attualmente tutto ricade sull’iniziativa e la responsabilità degli insegnanti: sparito ogni riconoscimento di sorta (nemmeno più i buoni pasto). 

È come se l’istituzione scolastica dicesse: fate, ma io non c’entro. Non un bel messaggio da proporre agli studenti. Cultura per me è corresponsabilità, prendersi cura, dire perché, dove e quando prendo posizione di fronte alla complessità della realtà. Senza presunzione, ma fiducioso che l’avventura della conoscenza costantemente consente nuovi incontri, nuovi e diversi punti di vista attraverso i quali fare l’esperienza sorprendente della ricchezza inesauribile della realtà. Mentre qui si dice: arrangiatevi. Fatti vostri.

Va bene, allora. Se la cosa su di me deve ricadere la prendo sul serio (e non procedo nella polemica). E sostengo e promuovo, quando mi riguarda, “viaggi di istruzione”. E tutte quelle esperienze che con l’esperienza del viaggio hanno analogie (stage, esperienze all’estero, progetti scuola-lavoro, volontariato studentesco,  ecc.).

Perché il viaggio non è una gita. Il viaggio è una cosa seria. E quando “riesce” rimane a lungo, forse per sempre (se le cose tra gli uomini avessero un’aliquale eternità). E ciò che a me è accaduto di vivere con i miei colleghi e con gli studenti in Bosnia è stato un viaggio. A lungo preparato e con determinazione difeso da tutte le burocrazie. Dai fantasmi dell’orribile passato della guerra e dall’immemore culto del presente. Dalle pigrizie della routine scolastica.

A Prijedor, a Sarajevo, a Srebrenica, a Mostar, a Blagaj abbiamo incontrato figure di un’umanità che benché diversa ci appartiene, anche quando assume il volto mostruoso del carnefice.

E si viaggia per incontrare, per accogliere, per sostare di fronte alle tante domande e alle nostre poche risposte. Proprio per non diventare carnefici. Di se stessi e (prima o poi) degli altri.

Così trovo anche modo di esprimere la mia profonda gratitudine ai colleghi e ai “miei” studenti con i quali ho condiviso un’esperienza professionale e umana che non sempre mi è capitato di sperimentare.

“La frase “Non essere cattivo con te stesso” Rabbi Baruch la interpretava così: Ogni uomo è chiamato a portare a compimento qualcosa nel mondo. Il mondo ha bisogno di ciascuno. Ma vi sono uomini che se ne stanno continuamente chiusi nella loro stanza e non escono di casa a intrattenersi con gli altri; per questo vengono chiamati cattivi. Perché se si intrattenessero con gli altri porterebbero a compimento qualcosa di ciò che è stato loro assegnato. È questo che significa non essere cattivo con te stesso; e s’intende col rimanere con te stesso e non uscire tra gli uomini; non essere cattivo per solitudine” (Rabbi Baruch di Mesbiž, in M. Buber, I racconti dei Chassidim, 1979).

 Prof. Gianfranco Torricelli (Liceo V. Veneto – Milano)

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