Avrei voluto che iniziassero col rumore dell’acqua del fiume Neretva, con il suo colore verde, ma non ricordo che forma avessero i miei pensieri.

– Ho dato a questi giorni forma di parole, ma non ne sono soddisfatto.

– Scrivi?

– Tre pagine al giorno! Io non so dove trovi tutto questo tempo.

– Veramente solo ieri sera ha avuto l’ispirazione, dopo la Rakja.

– Mi duole dirtelo Lorenzo, ma non potrai più scrivere.

– Come?

– eh, non trovo una presa a tre buchi.

– ma è scarico?

– Eh, sì

– Ma scusa, scrivi a mano!

– Non ci riesco, mi sfuggono i pensieri dalla testa.

– Vero. Vero, succede anche a me.

Marica ci ha accolto come una grande mamma chioccia, tra le caldissime ali piumose della stanzettina. Noi, io e d., avevamo la stanza vicino al bagno, m. e l. quella più piccola con caldaia, vicino all’ingresso.

Ci ha radunati e raccolti mentre pigolavamo impauriti vicino al grande autobus, soli e tremanti.

La casa era davvero piccola, noi grossi cristiani la occupavamo tutta. Le pareti attorno a me erano addobbate male, c’era odore di povero ovunque, c’era consistenza di povero. Sulla tavoletta del cesso c’era la moquette, ho notato, i mobili erano di compensato, alle pareti c’erano parati tristi, e puzzavano di povero; ma non ho mai pensato che la casa della mamma dovesse essere elegante, anzi, a ben pensarci la casa della mamma deve essere accogliente, e quella casa, la sua padrona, le sue piume, lo erano. Continuava ad entrare ed uscire di casa.

-Tumoro: milccofi?

– Domani.

– Tumoro.

– Tomorrow

– Da, da, tomorrow: milccofì?

– milk?

– da da, milc coffi.

-Ah! Yes, yes, tomorrow: milk (indicando d con ampi movimenti delle braccia) coffe (spalmando i palmi sul mio petto) coffe (puntando le braccia verso l. e t.).

 Poi usciva, chissà che aveva da fare. Ma poi tornava, e doveva aver capito, perché frugando tra le bruttissime mensole di legno bianco aveva tirato fuori un vassoio enorme che aveva caricato di tazzine, cucchiai e caffè in polvere. Prese il latte dal frigo ed uscì di nuovo. Per molti minuti temetti che ci avesse abbandonati, che ci avesse portato via per sempre quella pietosissima colazione. Ma  ritornò ancora in casa, e cercò di spiegarci il funzionamento della caldaia. Io non credo che l’avrei capito se me lo avessero spiegato in italiano, ma probabilmente capii grazie all’ardore che ci mise a trasmettermi le conoscenze circa il curioso meccanismo che regolava quella caldaia, tutto il tirare e spingere leve e azionare o disinnescare strani pulsanti. Poi uscì di nuovo e rimanemmo soli. Il rubinetto perdeva, ma ci lavammo i denti comunque. Nessuno di noi scelse di fare la doccia, un po’ spaventati dallo strano insetto scuro che dormiva nella vasca, un po’ vigliacchi e zozzoni.

Provammo a scrivere, ma insieme non combinammo gran cosa. Il tempo trascorse veloce, e presto eravamo già pronti per essere accompagnati al centro sociale di Prijedor.

Smarrimmo la strada un paio di volte, finimmo davanti ad un minareto altissimo e illuminato, un piccolo alimentari, un bar-meccanico. Si fermarono per capire che fine ci avevano fatto fare, al telefono Igor dava loro indicazione molto approssimative; eravamo davanti ad una fossa comune.

– Pensa che tristezza essere seppelliti qui. 

– Probabilmente queste persone sono nate e vissute qui, e per loro essere seppelliti in questo luogo è la cosa migliore.

-Sì, ma pensa che tristezza essere seppelliti qui…

Il loro legame stretto con la morte entra nelle ossa, e ogni giorno è più forte e calcifica. Oltre al marciapiede non c’è solo un’aiuola, un giardino privato o una piscina coperta da una siepe: oltre il marciapiede, all’altezza del busto, oltre un muretto, c’è una lapide conficcata nella terra, e accanto ce ne sono tante altre, ed ognuna protegge quella porzione smossa di terreno. Così provvisorio, mi viene da pensare adesso. Mi viene anche da pensare che un giorno il muretto crollerà, e la terra seguirà la legge di gravità, verrà giù anche lei, e con lei qualche osso, qualche teschio si intravedrà tra le radici della terra. Ma nessuno sarà particolarmente turbato, le ossa saranno raccolte, riordinate e sotterrate da qualcuno che vive troppo vicino alla morte per farsene ancora impressionare.

La cena non fu affatto veloce, i convenevoli sembravano eterni. Continuavo ad applaudire un gigante barbuto che parlava a scatti, per lasciare all’interprete il tempo di farci arrivare il messaggio.

Brodo, di carne, crauti, pita, involtini, patate, biscottoni. Avrei poi imparato a conoscere molto bene questo cibo.

La Bosnia è un luogo difficile da visitare come turista.

 Il giorno successivo conoscemmo delle brave persone e con loro parlammo; poi ci fu l’ora di libertà del pranzo, ma il nostro soggiorno a Prijedor era finito, era finito il tempo di Marica, la calda mamma chioccia. Le facemmo un disegno per lasciare traccia del nostro passaggio. L’autobus ci portò a Sarajevo, arrivammo la sera tardi. WELCOME TO HELL. Appena sopra la galleria che conduce fuori dalla città, i muri grigi dell’albergo ci salutavano nella notte. I lampioni arancioni illuminavano il buio. M, j, l, secondo piano, stanza da tre. La moquette ci guardava, ci guardavano la scrivania, la sedia e le lampade a muro; guardavano le nostre facce, i nostri discorsi abbozzati, misuravano il nostro imbarazzo. Doccia, doccia subito e tutti questa volta. Le nostre, sembravano facce stupite e profumate quando scendemmo giù a farci guardare dagli altri, facce pulite e belle come le loro. Dai nostri corpi tutti insieme saliva un odore di ordinato e corretto, che ci seguì quella notte per le strade di Sarajevo, e probabilmente salì dal marciapiede alle finestre dei piani bassi, capitando forse, mescolato all’aroma di pita calda, sotto il naso di qualche vecchio sarajevita, seduto in cucina curvo sulla sedia di legno, che pensava chissà da chi verrà questo puzzo.

 Martin Miragoli (Liceo V. Veneto VI G – Milano).

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