Ci siamo lasciati alle spalle Mostar, finalmente c’è il sole e la strada scorre veloce sotto di noi, diretti verso casa. Gli studenti dormono tutti, io mi lascio visitare dall’ondata tumultuosa delle impressioni raccolte durante queste giornate così particolari. Mi chiedo, ancora una volta: perché li abbiamo portati qui? Non solo in ottemperanza al quel dovere morale per cui pare ovvio che la scuola si occupi di cultura, sapere, ma anche di memoria, legalità, valori. Non sopporto gli incarichi che sanno di delega, la retorica del ricordo, le parole stereotipate che divengono persino offensive (che vuol dire “dobbiamo ricordare perché non accada mai più”?), i percorsi preconfezionati, la bellezza offerta a chi non ha la maturità per gustarla. Se sono stato qui è perché continuo a credere nell’efficacia didattica dei viaggi di istruzione, in cui si fa scuola con altri strumenti, in altre forme, con una concretezza che il lavoro in classe non può offrire; sono stato qui perché un viaggio è privilegiata occasione di incontro, esperienza di vita, tempo di condivisione, innanzitutto tra docenti e studenti.

Fiocchi su Sarajevo

Penso allora alle gite scolastiche di questi anni e mi affiorano immagini potenti: un arrivo ad Assisi con un’enorme luna piena sopra il Subasio; la Sorga e l’antro di Valchiusa, che rendono immediatamente percepibile l’esperienza umana prima che intellettuale di Petrarca; l’atmosfera davvero kafkiana del vecchio cimitero ebraico di Praga e delle notti di penetrante gelo della città; il pugno allo stomaco che mi dà un Caravaggio che mi viene incontro da una parete del museo di Vienna… Mi accorgo però che da alcuni anni cerco di proporre viaggi in cui sia prevalente la dimensione dell’incontro: con persone che hanno una passione da trasmettere, un’esperienza da condividere, una storia da raccontare, tanto più vera se vissuta in prima persona, passata attraverso la propria carne. Molti di questi incontri hanno riguardato situazioni drammatiche, di sofferenza, consegnato lacerti di una memoria offesa: è perché ho ritenuto importante proporre a degli studenti contesti di senso, in cui porsi domande su di sé e sul mondo, indagando il mistero dell’agire umano, così spesso intriso di discriminazione, violenza, limite, contraddizioni. La scelta di parlare di foibe e malattia mentale a Trieste o di mafia a Corleone non è stata ispirata, almeno nelle mie intenzioni, dalla ricerca di argomenti a effetto, tali da suscitare una facile emotività; ha significato invece condividere con gli studenti emozioni e narrazioni di particolare intensità, lasciarsi investire dal dubbio, aprire spiragli su questioni spesso capitali, capaci di sollecitare un incremento di riflessione una volta tornati in classe. Ha significato imparare a farsi da parte, per comprendere che il sapere non è solo qualcosa che si trasmette, ma anche qualcosa che si vive, che si costruisce insieme, spesso nella dimensione dell’ascolto: e un testimone generalmente è più efficace di un buon insegnante, di un buon libro o di una pur preparata guida turistica.

Ecco allora che di questo viaggio conservo innanzitutto i volti di quanti abbiamo incontrato: Silvia, Dragan, Igor, Dina, Jovan, Edis, Eugenio, Edin…I loro racconti ci hanno descritto le bellezze naturali e artistiche della Bosnia-Erzegovina; suggerito il fascino di una sua passata epoca di reale, forse anche intensa coesistenza culturale e religiosa; consegnato con partecipazione le sofferenze di una guerra assurda e dimenticata; evidenziato la necessità di un’operazione di memoria e giustizia che non si è ancora compiuta. Ma molto di più le loro parole ci hanno fatto condividere via via ricordi, nostalgia, dolore, solidarietà, riconoscenza, voglia di ripartire dopo le ferite, fiducia nella eccezionalità della vita, nonostante tutto: anche questa è una lezione. Siamo tornati con più domande che alla partenza (e ciò è bene), con un senso di amarezza perché non abbiamo visto molti segnali di rinascita, con più disaffezione nei confronti di una politica che, a ogni latitudine, troppo spesso sembra lontana dalle persone, dai loro concreti bisogni, quando non direttamente causa delle loro sofferenze. Abbiamo compreso che si va in Bosnia-Erzegovina non solo per intendere il passato, e tanto meno per un discutibile voyeurismo post-bellico, ma soprattutto per comprendere l’Europa e l’Italia di oggi, la sfida ineludibile della multiculturalità, i meccanismi di un linguaggio politico che talora anche da noi manipola la parola e la storia, con una volgarità simile a quella che concorse a scatenare nel 1992 quella guerra.

La tekjia

Ascoltando l’ultima sera le profonde riflessioni dei ragazzi, durante lo spazio di rielaborazione che abbiamo proposto loro, ho trovato poi conferma a una convinzione di lunga data: i giovani d’oggi sono ancora capaci di pensiero, se adeguatamente motivati e preparati rispondono a proposte ambiziose e impegnative, corrono il rischio di mettersi in gioco, sanno affidarsi agli adulti. Mi sono portato a casa anche questo, insieme al verde dei fiumi, al canto del muezzin, alla pace della Tekija di Buna, ai sapori della cucina, e forse non è poco se, almeno per un breve momento, tutto ciò precede negli occhi della mia memoria il grigio del cielo, i buchi dei proiettili nelle abitazioni, lo stillicidio dei cimiteri. Come l’Adagio di Albinoni, che, oltre l’eco delle granate, continua a risuonare tra le strade di Sarajevo.

Prof. Marco Baglio (Liceo V. Veneto – Milano)

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